"...una stagione dell'esistenza, un patrimonio collettivo da ripercorrere, un ricordo depositato"


questo è un luogo dove si raccolgono le sensazioni suscitate dai dischi, dalla loro ricerca, al loro possesso, ai ricordi che evocano

non vogliamo parlare dei dischi, ma delle emozioni che ci hanno dato

venerdì 30 marzo 2007

AA.VV.

Black convict's songs - Worksongs and blues
Anni fa uscì un triplo vinile raccolto in uno splendido cofanetto , corredato da tre libretti con testi in inglese e tradotti in italiano , ricchissimi di note , che racchiudeva una serie di registrazioni effettuate nelle carceri nere americane. Il cofanetto si chiamava "Black convict's songs - Worksongs and blues" e conteneva le registrazioni fatte da Alan Lomax in Mississipi nel 1947 , da Harry Oster in Lousiana nel 1959 e da Bruce Jackson in Texas nel 1965.Non ci sono bluesman "di professione" ma solo carcerati neri che subivano soprusi di ogni tipo a causa del colore della pelle e che in queste preziosissime testimonianze cantavano attraverso il blues e il gospel la loro sofferenza. Sono brani di un'intensità estrema che vanno ben oltre quello che si può provare all'ascolto di Robert Johnson , di Leadbelly o dei primi John Lee Hooker , Muddy Waters o Brownie Mc Ghee. Questo è IL BLUES dei carcerati registrato (nel caso di Alan Lomax , uno dei più grandi ricercatori di musica tradizionale americana , con uno dei primi registratori portatili in assoluto) in carcere da persone anonime. Il cofanetto è ormai introvabile ma sul sito www.rounderstore.com si trovano i CD separati. Questo è uno dei punti cardinali del blues e della musica moderna.Molto brani sono scanditi dalla sola voce accompagnata dal battito di mani o del piccone o di un barattolo.
EXTREME !

(Tony Face)

HUSKER DU

Candy Apple Gray (1986, Warner Bros.)
.... le mie radici musicali sono nel cosiddetto Rock Classico …. quello databile tra il 1966 ed il 1973 e quando la musica è entrata “seriamente” nella mia vita il Punk era in qualche modo la parola che identificava quello che non mi piaceva.Un’estetica che ritenevo troppo modaiola e costruita (in fondo pure la buon’anima del caro Marco Cagnoni, da sempre fervente discotecaro che si vestiva alle medie come John Travolta nella Febbre del Sabato Sera, non appena scoppiò il fenomeno Sex Pistols entrò in aula a scuola con una spilla da balia in puro Punk Style) e musicalmente che mi disturbava (…. ma questo era anche uno degli scopi dello stile), forse perché le mie esperienze erano stati gruppi punk altamente estremi come i GERMS di Derby Crash od i CRASS, ….. preferivo l’estetica e l’attitudine più naturale, e spontanea e dotata di un approccio anti-fashion del Rock anni ’70 e dell’Heavy Metal inglese (salvo solo scoprire poi anni dopo che era un’estetica quest’ultima che doveva anche al Punk) al nichilismo di tanta musica Punk (il nichilismo di Iggy Pop però fu un’altra storia per me).…. ecco quindi che per me Punk era il nemico …. era un’altra riva di fare e vedere la musica .... però ….. c’era una volta un’epoca stupenda per la radio italiana, la metà degli anni ’80 in cui c’era Rai Stereo Uno ed il settore musicale era diretta da Pier Luigi Tabasso. La sua idea di RSU era di renderla all’avanguardia musicale suonando e diffondendo la musica di qualità (quella vera), quindi Rock in tutte le sue salse, Funk di qualità (Prince, Afrika Bambataa e non Michael Jackson), Jazz, Folk etc …. ed ecco quindi due trasmissioni che ebbero il merito di scolpire la cultura e l’immaginario musicale di tanti di noi, tra cui il sottoscritto che aveva passato i primi 5 anni di passione Rock, solamente a dipendere dalle storiche Radio Peter Flowers e Radio Popolare: MASTER, tutti i primi pomeriggi e STEREODROME alla sera.Eccomi quindi che avevo preso l’abitudine di - prima di rimettermi a studiare - mettermi a letto ed ascoltare questa trasmissione con conduttori che mi facevano morire … Rupert col suo mitico saluto ….”Iggy Pop a Tutti!!!” per esempio …. e mi ricordo che ad un certo punto, in orario di punta per la musica commerciale (h. 14.00) Master iniziò a far ruotare un pezzo di una band di cui avevo letto lodi su Rockerilla, una band che pur attirandomi beh …. per me aveva un ostacolo … erano Punk .. o meglio Post-Punk.. Erano gli Husker Du …. e Master ruotava a grande intensità due pezzi provenienti dal loro disco di allora: “Don't Want To Know If You're Lonely” e “Sorry Somehow” ….. qualcosa mi si aprì ….. non era Punk come lo immaginavo fino ad allora – anche se si sentivano le influenze – e suonavano bene …. erano precisi ed efficaci …. e le chitarre erano personali …. rollavano ed avevano dinamica …. certo, non c’erano i miei tanto amati assoli di chitarra … ma …. non era stranamente una gran perdita …. e queste melodia e queste chitarre. …. iniziarono a girarmi continuamente per la testa e riuscirono senza che me ne accorgessi a raggiungere …. dovevo prendere questo disco.Qualche settimana dopo, dopo avere passato l’esame, mi premiai e comprai il 33 …e ……. bang!!Crystal scoppiò nelle mie orecchie ….e finalmente il Punk entrò nella mia vita musicale …… non ha mai raggiunto un percentuale preponderante, ma ne sono contento ….. il tiro di Crystal mi lasciò immediatamente interdetto … perché … aveva un suo senso musicale, una sua forza …. quel riff basato su un solo accordo … tanto cattivo quanto acido ……. con quel ritornello urgente e poi … il crescendo nevrotico e schizzato finale mi faceva quasi paura …… ma poi … Don't Want To Know If You're Lonely mi rassicurava e mi ridava dinamismo …. questo disco aveva il tiro .... per me …..Candy Apple Grey per molti critici è un disco che risente molto del cambio di label dalla storica SST alla Warner Bros e secondo me ingiustamente viene etichettato come il segno di una svolta pop della band …. personalmente non ho mai capito questo abuso del termine pop (come di quello punk) che la critica fa continuamente da trent’anni ….. Candy Apple Grey non è un disco pop .... è un disco di grande Rock diretto .... figlio proprio di quel capolavoro che fu ZEN ARCADE (che conobbi molto dopo) e del suo essere vero manifesto del Post-Punk americano ….. e come ZA portatore di tante piccole gemme che sono ancora oggi una lezione di come si fa, si vive e si suona il Rock, anche quando ci sono set acustici affascinanti e conditi dalla stupenda voce di Bob Mould come "Hardly Getting Over It" o dal piano di "No Promise Have I Made" …. forse non fa gridare all’assoluto capolavoro come fu ZA, ma per me …. è speciale …. è il ricordo di un’epoca d’oro della mia crescita culturale …..di un’epoca che mi ha permesso di allargare i miei confini musicali …..La cartina di tornasole, quando iniziai a suonare con Calone e Calino & Babe, beh … Sorry Somehow fu uno dei primi pezzi suonati … .ed ero contento, veniva proprio bene … era bello suonarla ……anche quando vi inserivo un’assolo ….

(The Lawyer)

giovedì 29 marzo 2007

DEEP PURPLE

Made in Japan (1972, EMI - Purple Records)
……….. Amo i dischi Live ….. meglio …… li ho amati in quanto per molto tempo oggetto di una forsennata ricerca di qualcosa o qualcuno che nella Storia del Rock potesse essere capace di fare quello che c’è dentro e che si può udire dentro questo disco …… ed ovviamente che potesse essere capace di donare le emozioni che da oltre un quarto di secolo questo disco sa e continua a donarmi …. entusiasmo … voglia di gridare, di suonare una chitarra e di aprire i tormenti, i mali i dolori, i dubbi, le paure e i desideri più intimi della tua anima …. di alzare le braccia al cielo … voglia di spremersi lungo un’autostrada alla ricerca di qualcosa, di qualcuno di un’oasi, del cucuzzolo di una montagna, di un banco di un bar che ti sappia donare il calore che la tua stessa camera da letto ti ha fin da piccolo donato …. la ricerca di Avalon … forse ….. emozioni che per qualcuno (anche di questo sito) possono essere solo adolescenziali, ma che personalmente ritengo preziosissime sempre e … sempre sintomo di una malattia di cui sono mortalmente infettato …. una sindrome terribile ed incurabile che mi accompagnerà fino alla mia morte, una sindrome che è anche una benedizione …. quella del Rock ‘n Roll Un malattia di cui Made In Japan è stata la causa prima … il secondo disco rock che abbia mai sentito a dire il vero … ma che per me è e sarà sempre il primo … semplicemente il nucleo duro (Hard …) del mio cuore e della mia anima musicale …… … ma in questa valutazione sono in buona compagnia, visto che per coloro che “sanno” di Rock, che sanno capire e distinguere e non omologare impropriamente (questo NON E’ HEAVY METAL!!) questo disco è – semplicemente -- il più grande album dal vivo della Storia del Rock, un esempio insuperato, un modello cui poi tutti hanno tentato di riferirsi …… non c’è Live At Leeds (The Who), non c’è The Song Remains The Same (Led Zeppelin) non c’è Metallic K.O. (The Stooges), non c’è Kick Out The Jams (MC5) che tengano di fronte a quello che fecero in tre serate d’estate del 1972 (ma anche prima ad onor del vero) questi cinque scatenati rockers inglesi, al culmine della loro creatività e del loro entusiasmo -- con già un pizzico di manierismo e l’allargamento inarrestabile di sottili crepe interelazionali destinate a spuntare dietro l’angolo un mese e mezzo dopo – che si spremono in un tour de force musicale fatto di lacrime, sudore, sangue, feeling, intensità, passione, contaminazioni musicali, tecnica musicale stellare, violenza, energia e classe.
Un Tour De Force assolutamente unico e totale.
Badate bene …. i termini di paragone che ho fatto sopra sono tra i più nobili (e da me ultra amati) dell’intera Storia del Rock, e condividono e vivono il mio cuore … ma Made In Japan è diverso …. è speciale …. è quel classico disco che senti subito come abbia quel qualcosa in più …. la marcia in più … c’ha il tiro … e c’è quel particolare spirito di una band che in qualche modo si sta bruciando il nucleo duro delle proprie riserve di energia in una sorta di atto di devozione alla loro creatività, alla loro energia ed alla loro magica formula …. così come nel loro altro capolavoro “In Rock” (1969-1970) la band si giocò il tutto per tutto per non morire in un’esplosione sonora assolutamente inimicata, così in questo Live i Deep Purple celebrano l’apoteosi di quello che sapevano fare, fottuto duro, senza compromessi, Hard Rock, mai staticamente monolitico ma aperto alla loro creatività e gusto e feeling che variava di notte in notte.
Un approccio progressivo senza assolutamente essere Progressive né prendere i tipici difetti del Progressive Rock, anche quando dilatavano i pezzi come Space Truckin’ in lunghissime jam psichedelico-rumoriste, che avrebbero fatto l’invidia della Experience o dei Doors o dei Quicksilver Messenger Service … e soprattutto il reinventare in maniera nuova i pezzi dai dischi in studio che assumono in questo contesto una dimensione totalmente nuova …..sono pezzi nuovi … guadagnano in tutto e per tutto e diventano ad uno sguardo distaccato quasi la “summa teologica” di tutto quanto di buono vi è stato nel Grande Rock Classico pre-Tempesta Punk.
Ed eccoMi quindi ancora qua adesso a quasi 35 anni da quei concerti ed a 26 anni da quel Sabato Pomeriggio in cui ascoltai per la prima volta questo doppio … a ritrovarmi on gli stessi brividi nella pelle ….. la stessa tensione quando ancora una volta penso ed ascolto Highway Star (l’opener perfetta di un concerto Rock per Me) …. i musicisti che trasformano le risonanze per accordarsi nell’inizio del pezzo ….. il ritmo che accelera …… la batteria che inizia a pestare veloce e dinamicissima, poi la voce forte intensa onestamente pura di Ian Gillan … “This song’s called Highway Star ….. yeaaahhhhssss!!!” .. .e poi l’elettricità pura della Fender Stratocaster di Ritchie Blackmore che taglia l’aria e fa scoppiare il pezzo …. e da lì ancora oggi è un turbinio di emozioni ….. gli assoli velocissimi, intensi, pieni di anima e di follia acidamente post-hendrixiana … con una spruzzata di classicismo bachiano ….. l’intensità di Child In Time con le vette che la voce di Gillan riesce a raggiungere e poi l’assolo di chitarra così intenso, virtuosistico, entusiasmante, tirato dalle punte jazzate “ ‘a la Mahavishnu” ma mai fine a se stesso, Smoke On The Water … il riff per eccellenza del Rock (più di Satisfaction o di I Wanna Be Your Dog o di Jumpin’ Jack Flash o Substitute) …. così sputtanato nel suo essere continuamente suonato milioni di volte al giorno …. ma così esaltante nella sua elettricità in quella magica serata di Osaka ….. la tribalità ritmica dietro i sapori post-hendrixiani di The Mule ….. la coinvolgente ritmica di Strange Kind Of Woman con il suo swing da jam session e l’immortale duello voce chitarra ….. per poi proseguire con la jazzatissima (con citazione brevissima ma totale di Duke Ellington) Lazy in cui è il rincorrersi tra organo e chitarra che la fa da protagonista ……la già citata Space Truckin’ ……. e (grazie ai remasters recenti) la cavalcata allucinata di Black Night …. una Speed King violentissima e quasi proto-punk nella sua irruenza ed urgenza …. per finire con una sconvolgente cover di Lucille di Little Richard …. si perché mai questa band ha trasceso la sua natura di essere una fucking Rock ‘n Roll band … ed il Rock ‘n Roll è soprattutto emozione …. e questa esce da tutte le note che suonarono 35 anni fa ….. e questa mi sprizza dai pori ogni volta che l’ascolto …. dovrei sentirmi vecchio …. dovrei sentirmi stanco …. eppure con Made In Japan non è così ….. lo sento e come i brividi che dà la pioggia che batte sul tuo corpo Mi sento di nuovo di avere 35, 30 … 20 anni ……… mi sento vivo e rinato!!…… grazie Ritchie Blackmore, grazie Ian Gillan, grazie Roger Glover, grazie Jon Lord, grazie Ian Paice …. grazie di avermi acceso l’anima …. e grazie a LaRoma che ebbe l’insana (ma sacrosanta) idea di darmi questo disco da ascoltare ….. mi ricordo ancora le parole … “senti questo …. è più secco piu forte ….. è fortissimo … meglio dei Van Halen” …… già … Grazie Roma …..
ROCK ON
(The Lawyer, 29/03/2007)

domenica 25 marzo 2007

SEERS

Psych Out (1990, Cherry Red / Roadrunner rec.)
Caro DoktorP.,
ho appena compiuto una razionalizzazione che ti riguarda
(e infatti vado IMMEDIATAMENTE ad aprirmi una birra, prima di luzzattofegizzarmi):
ho capito che mi risvegli il desiderio di spolverare gli scaffali più vecchi, dove c'è tutta quella roba che ha costituito e costituisce il mio endoscheletro musicale più arrugginito dal tempo, e che aspettava paziente in casa di riposo una visita dei parenti - ma di quelli che portano di straforo Faciòn* e pornazzo al loro vecchio, un satiro tutto sarcasmo e veleno...
Ed ecco che infatti mentre cerco un qualche album di cui scriverti, la mia domenica sonnacchiosa ritrova un sorriso divertito e consapevole, ed echi di feste e vacanze irriferibili, al piovermi letteralmente addosso di un'opera prima (?) targata 1990: cinque ragazzotti inglesi (tutti?) che non ci stanno su tanto a pensare e ti sparano lì in modo forse un pò naif i loro pezzi belli chitarrosi e ruvido-melodici che ti si stampano in mente in un nanosecondo, roba per sgolarsi in gruppo che ti viene voglia di riempire una macchinata con 3 - 4 debosciati come te, aprire i primi due bottoni della camicia, inforcare occhiali da sole, autostrada e via, feste rock'n'roll ce n'è, Londra o Rimini, cassa di autarchica Moretti o di Camparini da 10, alla ricerca del wurstel perduto o di ragazze da fumetto (ma che cosa non è quell'inno d'apertura allegramente primordiale...
"Yeah, BABY I'M A WILD MAN...YEAH!! YEAH!! YEAH!!!"...stepitoso!!!), con la sicurezza di rimorchiare, sì...gli immancabili, succulenti e mastodontici mal di testa dell'alba che ormai ci si conosce per nome. Se per caso non si era capito trovo grandioso questo disco (anche se, mi secca ammetterlo, solo in versione CD c'è come bonus track "Lightning strikes" che mi piace da Dio...): deliziosamente ignorante e selvaggio, fa a pezzi qualunque tipo di cravatta in meno di un minuto.
*P.S.: per eventuali non addetti (ma chi ci crede?), Faciòn = Vecchia Romagna...
(LaRoma 24/3/2007)

lunedì 19 marzo 2007

DAVID SYLVIAN

Brilliant Trees (1984, Virgin)
E’ notte, ma per Milano c’è ancora traffico, la serata è stata pesante: cena, locale trendy,vino e poi moijtos, è ora di tornare.
Vado piano, le vie si susseguono tutte uguali, palazzi e semafori, incroci a cui non bisogna mai fermarsi, baracchini di panini e birre circondati da una fauna errante, viados e puttane, motociclisti spericolati e taxisti nevrastenici, nel lettore il cd di David Sylvian, colonna sonora ideale per questa notte.
Arrivo a casa ma non ho più sonno ed allora metto le cuffie e riascolto “Brilliant Trees”.
Mi lascio trasportare in un’atmosfera magica dalla voce calda e profonda di Sylvian, rimandi alla musica dei Japan, suo ex gruppo, con “Pulling punches” e “Red guitar”, ma anche atmosfere jazzate e musica d’autore per un cantante/artista (è anche valido pittore…) qui circondato da musicisti eccezionali del calibro di Ryuki Sakamoto, Holger Czukay, Jon Hassell.
E poi c’è “Nostalgia”, avvolgente, seducente come una bella donna, che ti fa sprofondare nel ricordo e ti riempie la mente di immagini del passato, un film al rallentatore di volti, situazioni, gioie e dolori, amori mai nati o troppo presto finiti, l’innocenza perduta e la consapevolezza del tempo che passa.
E’ l’alba, è ora di andare a dormire…..
(Lillo Lydon, 19/3/2007)

domenica 18 marzo 2007

MEREDITH MONK

Dolmen Music (1981, ECM)
A volte chiedo alla musica di stimolarmi con nuovi profumi come ad un liquore che assaggio per la prima volta.
Altre, per esempio quando lavoro, di mantenere in sospensione le idee come fa una pentola che bolle con gli aromi.
Altre ancora la uso sintonizzandola allo stato d’animo del momento.
In alcuni momenti mi pare di sentire la bellezza della vita in un modo così pieno che è sufficiente accettare solo di essere per abbraccirla tutta: niente escluso.
Al silenzio di questi momenti, impossibile in un centro abitato, sostituisco la musica di Meredith Monk.
La voce è al centro.
Senza parole e concetti è il suono.
Incanto di essere umani.
Stretta è la gabbia toracica per il sentire che si ricongiunge con il tutto.
Si manifesta in una lacrima di gioia.
(Argio, 18/3/2007)

mercoledì 14 marzo 2007

AND YOU WILL KNOW US BY THE TRAIL OF DEAD

Worlds Apart (2005)
Energia pura.
Non so dove andrai, giovane band, ma ascoltando questo disco, vien da pensare lontano...
Di sicuro, sembra giungere da lontano, dagli anni ottanta di Husker Du, Bad Religion, Sonic Youth; dagli anni settanta dei Led Zeppelin; dai sessanta dei Beatles...
Chitarre in primo piano e dai suoni importanti.
Turbinio di trascinanti riff che si ripetono, momenti al limite del prog che fanno restare a bocca aperta.
Compito a casa: ascoltare "Would You Smile Again" pensando a strutture musicali prog con suoni attuali;
spirali di melodie chitarristiche distorte che si inseguono giù per le scale, corsa in discesa, rollercoaster texano mozzafiato, vis giovanile post-punk.
Una band multiforme, così come la sua discografia, un preoccupante interrogativo sul chi è, a rincorrere lati oscuri di Quinlan piuttosto che ingegnosità ragionate del cittadino Kane!
E' un disco che non si stanca di suonare, ed io, non mi stanco di ascoltarlo.
E so di non essere l'unico.
(Nello Baffetti 14/3/2007)

martedì 13 marzo 2007

POGUES

If I Should Fall From Grace With God (1988, WEA Records)
Ricordi nella nebbia………….autunno 1988 o forse no?
a Santa Cristina……….festa di laurea o forse no?
Ricordi nella nebbia.
Poche certezze……Pasto D.J., svariate taniche di birra, ma soprattutto l’album “If Should Fall from Grace With God” della più grande folk-punk band esistente.
Il pezzo omonimo giunge irresistibile come una bomba e subito “dentro il cerchio del voodoo mi scaravento….ho il ballo di San Vito e non mi passa…..questo è il male che mi porto da 30 anni addosso….fermo non so stare in nessun posto” come declama il menestrello Vinicio.
A seguire Turkish song of the damned con armonica, banjo e mandolino che impazzano e la voce di Shane MacGowan che rantola insuperabile, la febbre sale con Bottle of smoke ormai il sudore imperla la mia fronte e cola copioso sulle mie guance, la T-shirt targata Danzig ne è completamente intrisa, ma le gambe non si fermano e il cuore batte a 1000.
Ricordi nella nebbia…..corpi femminili che si strusciano in preda a una danza tribale che evoca spiriti dalle tenebre…… o forse no?
Ricordi nella nebbia.
Ed ecco “Fiesta” il pezzo che inizia con un lento assolo di fiati per poi esplodere penetrando fino al midollo e scatenando la mia adrenalina mai sopita.
Ricordi nella nebbia………completamente svuotato trovo rifugio nell’ultima bottiglia rimasta o forse no?Ricordi nella nebbia.
Appunti, ricordi, annotazioni di MINEZ, (13/3/2007).

AFTERHOURS

Hai Paura Del Buio? (1997, Mescal)
Per noi esterofili nati, che abbiamo (spesso sbagliando) sempre guardato con sufficienza ai gruppi italiani, gli Afterhours sono stati uno schiaffo alla nostra supponenza.Questo album seguì “Germi”, primo disco cantato in italiano dopo gli inizi in inglese, che già conteneva alcune perle come “Ossigeno”, ”Dentro Marilyn”, “Germi” e la cover di “Mio fratello è figlio unico” di Rino Gaetano, e che in pratica anticipava quella che sarebbe stata la direzione definitiva intrapresa dal gruppo.Utilizzando la tecnica del Cut-up (tagliare articoli di vario genere e rimettere assieme frasi per esprimere poi concetti ed argomenti che nulla hanno a che fare con gli originali) Manuel Agnelli introdusse un nuovo modo di scrivere testi, che non erano i classici slogan delle posse, né il narrato dei cantautori, ma un qualcosa di diverso ed originale pur trattando di tematiche quali amore, droga, storie finite male e spesso esperienze personali.Musicalmente molto eclettici, capaci di passare dal pezzo melodico al rock duro, dalla ballata al classico pezzo punk, furono anche i primi ad introdurre il violino, spesso suonato distorto.Un disco completo che non ha niente da invidiare ai grandi dischi stranieri, siano essi americani inglesi od australiani, punto di partenza di un nuovo modo di fare musica in Italia.Ascoltare per credere le dolci ballate di “Pelle” o “Voglio una pelle splendida” o il punk-rock di “Male di miele” e “Lasciami leccare l’adrenalina”, la denuncia di “Sui giovani d’oggi ci scatarro su”, il lamento malato di “Punto G” o l’hard-rock di “Veleno”. Alla fine 19 canzoni, tra cui un paio di strumentali, che evitano il rischio della dispersione e della frammentarietà, di mettere troppa carne al fuoco, e che invece rivelano in tutta la sua grandezza uno dei più originali gruppi italiani.A 10 anni di distanza ancora un grande disco…
(Lillo Lydon, 12/3/2007)

martedì 6 marzo 2007

NEIL YOUNG

Tonight's the Night (1975, Reprise)
Il fondo del pozzo, la discesa all’inferno.
Registrato quasi interamente in presa diretta in un garage, fa parte della “doom trilogy” (con “Time fades away” e “On the beach”) che seguì il clamoroso successo di “Harvest”.
Sconvolto per la morte del chitarrista Danny Whitten e del roadie Bruce Berry per overdose, il divorzio e la scoperta della malattia del figlio, Young inizia la caduta libera nel pozzo in fondo al quale lo aspettano i suoi demoni. Disco pieno di disperazione e alcool, in cui spesso canta ubriaco, stonato, canzoni oscure e ruvide, testi di droga e di morte, ma che ci offrono cò che ogni artista ha di più prezioso: i propri dubbi, le proprie debolezze, le imperfezioni, la propria anima sconvolta.
A volte la grande musica non deve necessariamente essere bella musica, qui la voce è sgraziata, sembra quasi sul punto di spezzarsi, il suono nervoso, nessuna post-produzione o arrangiamento eppure pochi dischi al mondo riescono così tanto a commuovere, a toccare le corde più profonde perché pochi si sono spinti così al limite da aprire la propria anima e metterla su un disco.Un disco necessario, in bianco e nero come la copertina, l’autobiografia di un momento, lo specchiarsi nudo e vedersi circondato da spettri e fantasmi, ma sopratutto un disco sincero, straziante, commovente.
“Sono stato per la strada e sono tornato/fischiettando solitario lungo i binari della ferrovia/non è rimasto nulla di ciò che provavo/c’è qualcosa che è difficile trovare/una situazione che può danneggiare la mente”(Mellow my mind”).
“Bruce Berry era un lavoratore/caricava lui il furgone Econoline/aveva una scintilla negli occhi/ma la vita l’aveva in mano/Bè, a notte fonda quando la gente se n’era andata/raccoglieva la mia chitarra/e cantava una canzone con voce tremante/ma vera quanto era lungo il giorno/……..se non l’avete mai sentito cantare/credo che non lo sentirete tanto presto/perché, gente, lasciate che ve lo dica/mi è venuto un brivido alla schiena/quando ho alzato il telefono/e ho sentito che era morto di eroina/Questa è la notte….” (Tonight’s the night).
Un artista capace di dischi eccezionali (Zuma, Harvest, After the gold rush, Rust never sleeps ) e di tonfi clamorosi (Hawkes and doves, Re-actor, Trans, Landing on water), di trionfi e di cadute, di dischi imperfetti e spiazzanti, ma anche di stare sul palco da quarant’anni senza per questo sembrare patetico, di mettere sempre tutto sé stesso in ogni disco, bello o brutto che sia, e di regalarci capolavori senza tempo dal profondo dell’anima.
(Lillo Lydon, 5/3/2007)


giovedì 1 marzo 2007

TUXEDOMOON

Desire (1981, Pre Records)
L’inizio è un’atmosfera alla Blade Runner, ti immagini la Los Angeles futuristica, pioggia acida, strane macchine volanti, replicanti; poi si passa ad uno strano valzer, con la drum machine a dettare il ritmo e Wiston Tong che canta uno strano lamento mentre a turno sax e violino ti infilzano l’anima.
Strani rumori, sono chiuso in una stanza, cerco la porta ma non la trovo, un senso di claustrofobia mi avvolge, un martellante tintinnio, mi manca l’aria, voglio uscire ma sono attratto da questi suoni, quasi ipnotizzato. Una voce dall’altra stanza canta, sussurra, si lamenta.
Ed ecco parte un ritmo quasi dance, una danza spettrale, è forse la fine dell’incubo?
Inizia la seconda facciata con “Desire”, ideale colonna sonora di un film di David Lynch, Twin Peaks 15 anni prima, e poi “Again” preghiera, lamento, pianto, redenzione, tensione all’infinito che solo il sax riesce a lenire.
Tutto finito? No.
Inizia la danza macabra di “In the name of talent”, quasi Ian Curtis cantasse dall’aldilà ed allora è il momento di terminare con “Holiday for Playwood”, swing futuristico, Ginger Rogers e Fred Astaire che ballano in una New York del 2020.
Il sole sorge, è l’alba di un nuovo giorno…..
(Lillo Lydon, 29/2/2007)