"...una stagione dell'esistenza, un patrimonio collettivo da ripercorrere, un ricordo depositato"


questo è un luogo dove si raccolgono le sensazioni suscitate dai dischi, dalla loro ricerca, al loro possesso, ai ricordi che evocano

non vogliamo parlare dei dischi, ma delle emozioni che ci hanno dato

domenica 29 aprile 2007

DAVID CROSBY

If I Could Only Remember My Name (1971, Atlantic)
Da ragazzino vivevo con il sogno dell’America, la West Coast, le comunità hippyes, l’amore libero, il no alla guerra in Vietnam, la speranza di cambiare il mondo.
C’è un disco che più di ogni altro mi porta a quegli anni, un disco stupendo, sognatore, psichedelico e lisergico, acido ma nello stesso tempo leggero come una farfalla pronta a volare via.
David Crosby al culmine dell’ispirazione, come purtroppo non sarà più, l’essenza di come la musica possa avere il potere di farti viaggiare con la mente, quasi fosse una sostanza stupefacente.
Un rifugio in cui entrare ogni volta che ne hai il bisogno, un luogo in cui andare quando hai voglia di scoprire.Una voce stupenda, capace di cantare indifferentemente il country, il soul ed il blues che si fonde perfettamente con le chitarre, quasi fosse anch’essa uno strumento e che compone bellissime ballate capaci a distanza di tanti anni di farmi venire ancora la pelle d’oca, perché poche cose come la musica ti sanno emozionare.
E l’ingenuità di quegli anni, i sogni e le speranze, riaffiorano in un brivido di malinconia.
Perché sicuramente non avrei immaginato che saremmo finiti così:una società finta dove l’unico valore è il denaro, dove ricchi figli di papà e poveri figli di operai si ritrovano nei cessi dei locali a farsi di coca per sentirsi tutti vivi, e dove le ragazze, dopo una settimana passata a guardare reality e la De Filippi, si buttano, tappate come troie, alla ricerca di un’apparizione, di una chance, per non finire in un call-center o alla cassa di un supermercato.
Speriamo che almeno non abbiano perso la voglia di sognare un mondo migliore.
(Lillo, 29.04.2007)

sabato 21 aprile 2007

NADA

Luna In Piena (2007)
Non deve essere facile mettere a nudo le proprie ferite, ancora sanguinanti, gli insuccessi, le disillusioni e le proprie imperfezioni, ma Nada lo fa con fierezza, come chi nonostante tutto crede ancora nell’amore, con cicatrici nel cuore e ancora tante storie da raccontare.
I testi sono molto belli, al limite della poesia, ed il canto è pura recitazione, a volte ricorda il miglior Giovanni Lindo Ferretti (quello vero, non il Papa-boy di adesso…che tristezza….).
Ma è davvero così importante cercare di mettersi a nudo, di scrivere testi che entrano nel personale e comunque non siano i soliti ritornelli, in questa epoca di musica consumata velocemente su I-pod vari e dopo un mese dimenticata?
E a cosa serve la musica, abbiamo ancora il tempo e la voglia di “ascoltare” un album, sviscerarlo in ogni sua parte, imparare ad amarlo invece che ascoltare solo qualche pezzo,magari i più orecchiabili e dopo pochi giorni metterlo da parte?
Se la risposta è si, imparate ad “ascoltare” questo disco.
Vi colpirà dritto al cuore.
(Lillo Lydon, 21.04.2007)

venerdì 20 aprile 2007

RY COODER

Paris, Texas (1984, Original Soundtrack - Warner)
Una faccia stralunata, consumata. La pelle è un'arancia dura come un sasso, brunita e raggrinzita dall'arroganza di un sole carogna guardato sorgere troppe volte senza cautele.
In gola un bolo di mastice, tignoso quanto una nuvola di zanzare afose. Dell'aria è bruciata anche l'idea.Realtà al collasso, sui bordi è vapore di benzina. Fumo di bitume fuso nero.
Pensieri asfissiati, convulsioni, visioni febbricitanti; associazioni mentali ipercinetiche e contraddittorie, oleose nel loro fiondarsi cieco le une contro le altre ma senza cozzare. Liquefatti ogni schema, sistematizzazione, ordine razionale, ogni abbozzo di sequenzialità coerente delle azioni, guidate ora da un sobbollire nervoso casuale.
Lacrime partorite asciutte. Labbra spaccate che balbettano riarse impastandolo il nome di una donna. Di un bambino. E binari arroventati, polvere, pietre di un biancore accecante: questo l'alveo per il caos interiore di uno spettro dalle sembianze umane che stentatamente si trascina, barcolla, stritolato da improvvisi tizzoni emotivi e sentimenti in anossia.
Il collo di bottiglia di una chitarra slide prosciuga ogni suono superfluo, sottrae materia e di quel che resta "tira" ogni nota fino a spezzarne le ossa, mettendola forzosamente a fuoco, spremendone tutto il potenziale di suggestione: la risultante è questo ambiente torrido e rarefatto, in cui i picchi e le seguenti cadute di note dal midollo succhiato peggio di un ossobuco danno il senso di una ricerca allo stremo ma non arresa, di un'ossessione non placata: il lamento di un cuore senza pace, crivellato dal suo amore perduto.
Tregua: la toccante "Canciòn mixteca", malinconia d'amore, saudade di ogni Sud del mondo, splendente di tradizioni antiche e saggezza popolare.
Il resto sono cactus e cespugli che rotolano lungo anime desertificate fino alla tensione del dialogo che chiude il disco.
E la gola, per tanta esposta fragilità della condizione umana.
(LaRoma)

giovedì 19 aprile 2007

NEIL YOUNG

On The Beach (1973, Polydor)
Probabilmente l'album migliore di Neil Young, e certamente il più comunicativo.
L'inferno di "Times Fades Away" ed il limbo onirico di "Tonight's the Night" (pubblicato nel 1975, ma inciso nel 1972) scivolano dolcemente verso la vita.
E' l'album che rivela la luce in lontananza; il respiro ancora debole, ma presente, di chi riprende a vivere; il primo battito del cuore dopo la morte apparente.
E' pur sempre un album di dolore, di tristezza e malinconia, ma questa volta concede spazio alla speranza: la trilogia del dolore si chiude qui. Le vicissitudini ed i drammi personali stanno per trasformarsi in pura esperienza, lasciando sfilare dal corpo, la pelle della disperazione, quasi in una lenta muta, non voluta, non cercata, non naturale, ma necessaria.
Sarà sempre una questione di gusti, ma alcuni dei brani migliori del repertorio di Neil Young sono contenuti in quest'opera, e lo è sicuramente la sua canzone più bella: Ambulance Blues.
La capacità di rendere un'atmosfera carica di sensazioni è decisamente una delle sue caratteristiche più marcate; parlo di musicalità pura e semplice.
L'accordatura si apre e si abbassa di un tono ed il suono degli arpeggi arriva al cuore, tradotto in vibrazioni sonore non comuni all'orecchio, per la corposità dei bassi e per il colore che assumono.
Le note si avvertono in maniera più lenta e più piena, con una frequenza che le arrotonda fino a renderle ancora più toccanti.
L'introduzione di Ambulance Blues è semplicemente un capolavoro disegnato dalla chitarra acustica. I suoni, contrappunti magici, dell'armonica e del violino si fondono e si mescolano in un'espressione unica di tristezza, un lamento da cui trarre piacere, non dolore.
Se in "Tonight the Night" i musicisti avevano suonato al buio, per accentuare il clima cupo e disperato del disco, ora sono le cromature delle note ad infondere l'emozione all'ascolto.
Motion Picture è un canto d'amore e di ricordo; la slide-guitar ripetitiva e malinconica esalta l'atmosfera.
L'assolo di Revolution Blues è la cosa più spigolosa e geniale che si sia mai ascoltata in un blues.
Le vibrazioni del wurlitzer piano di See the Sky About the Rain non hanno uguali nella storia della musica rock.
"On the Beach" è un disco di quelli che ti cambia, che ti arricchisce di sensibilità, che ti fa crescere e che ti fa pensare...
Ti fa pensare alla tua vita, alle tue speranze, ai tuoi ricordi, alle tue cose, ai tuoi amici: chi c'è e chi non c'è più.
E lo ascolti, scoprendoti poi con gli occhi chiusi, il cuore tra le mani, e l'anima ad un metro da te... che ti guarda e che si fa guardare.
(Nello Baffetti, 19/4/2007)

lunedì 16 aprile 2007

NICK DRAKE

Pink Moon (1972, Island Records Ltd)
Eccomi ancora una volta, dopo una dura giornata di lavoro, seduto sul divano a rilassarmi.
Mi alzo e fra i CD disposti alla rinfusa ne estraggo uno qualsiasi, lo posiziono sul lettore e subito i suoni mi giungono repentini, percorrono i padiglioni auricolari e le vibrazioni del timpano si trasformano in messaggi dielettrici che giungono al nervo, lo percorrono e arrivano a parte del cervello.
Entra biologia molecolare e ne escono emozioni: dolore? malinconia? paura? depressione? o semplicemente un inno alla solitudine.
L’album che genera tutto ciò è Pink Moon di Nick Drake cantastorie birmano di rara capacità espressiva; è sufficiente riascoltare il brano Know
“Know that I love you
Know I don’t care
Know that I see you
Know I’m not there.”
per immergersi in un mondo di desolazione, sgomento, vuoto interiore.
Tutti i suoi pezzi sono colmi di sensibilità e vulnerabilità con musiche a cavallo fra folk e jazz e solo la sua morte prematura ci ha privato di altri brani di sicuro spessore.
Appunti, ricordi, annotazioni di MINEZ. (16/4/2007)

venerdì 13 aprile 2007

FEIST

The Reminder (2007)
Ci sono momenti che hai voglia di leggerezza, voglia di malinconia, di fluttuare nei ricordi per rivivere le cose belle, emozioni, storie, gioie; voglia di stare solo, isolarti dal mondo esterno per entrare in un altro mondo tutto tuo.
Ma non avendo mai allacciato rapporti con sostanze lisergiche ed affini, hai bisogno di uno stimolante e quale migliore se non la musica? Ed allora ecco che dischi come questo sono la migliore medicina, un passaggio perfetto dal reale al fantastico o dal presente al passato a seconda delle voglie del momento.
Ed arrivato ad un’età in cui i ricordi sono molti di più che non i sogni questa è una musica necessaria, terapia perfetta contro la folle corsa senza una meta della vita odierna.
E questa voce, ora dolcissima, ora sofferente, ora malinconica, ti avvolge piano piano, si impossessa di te ogni volta un po’ di più, sino a condurti là dove da solo non avresti mai il coraggio di andare:
nel profondo del tuo cuore.
(Lillo Lydon– 12.04.2007)

martedì 10 aprile 2007

LIVING COLOUR

Stain (1993, Sony/Epic)
Non per tutti!
Un susseguirsi di assoli e riff chitarristici da capogiro. Hendrix ri-letto ed eseguito in melodie circolari tra metal e trash.
Vernon Reid la sa lunga...e anche se la tecnica è tutta dalla sua parte, il protagonismo della chitarra non disturba come ci si aspetterebbe.
L'energia sgorga naturale ed impetuosa dai suoni e dai ritmi di questo disco.
Ti vien da pensare che con questi suoni, con questa tecnica, con questa ritmica, l'unica musica possibile sia proprio questa...
E forse lo pensi; e pensi che senza la tecnica, questo genere di cose non te le puoi aspettare da tutti...
E quando lo pensi, ti resta soltanto una cosa da fare: ascoltare.
Esaltante.
(Nello Baffetti, 10.04.2007)

BILL FRISELL

Works (2000)
Sono naufragato.
Troppa inutile terraferma che proietta miraggi, troppa riduzione di complessità, troppe semplificazioni, troppi compromessi accettati (necessari o creduti tali) perdendomi pian piano di vista, in affannosa ricerca di pace con me stesso.
Mi sento una foto sfocata, energie nervose al lumicino.
Musica rifugio, dentro così tanto di me da cercare proprio lì segni di un’identità alla deriva.
Cuffie, luce da penombra e “Works” di Bill Frisell.
Mi aveva fatto crescere e accompagnato, tirandosi poi timidamente in disparte come un genitore che assolto il proprio compito ti lascia libero di andare a cercarti da solo la tua strada.
Mi fa ritrovare di colpo una cosa precisa, nitida: rivedo i miei disegni, che tanta parte di me si portavano dentro, tutte le mie ossessioni, le solitudini, la mia introversa ma solare voglia di vivere “insieme”, la scintilla al centro del mio corpo che lo faceva vibrare di vita.
C’è il tavolo scarno, la stanza ormai buia, notte fonda e sempre più freddo, il morso del sonno vano contro la mia ferrea forza di volontà: ho musica, foglio e matita e urgenza, devo spiegarmi, gridare garbatamente al mondo che esisto e sono fatto così.
E’ tornare a casa.
Il paese è cambiato, la gente è diversa ma c’è ancora la mia casa.
Questo è per me (l’eclettico e sterminato, ma non interessa ora) Bill Frisell.
Qui - non soltanto ma specialmente qui - la sua musica è tutto quel che vorrei dire nel modo in cui vorrei saperlo dire: io, se fossi, se potessi essere suono.
Molto più somigliante di qualsiasi foto. Un ritratto teso, inquieto, obliquo, a tratti poesia lancinante eppure insieme dolcissimo e commovente.
Maledettamente fedele.
Indietro non si torna, no; ma ora ricordo chi sono stato, dove sono passato.
Ogni singola nota, suono, è una tessera del mosaico che io sono. Mi appartiene e definisce.
Black is the color of my true love’s hair”, come guardare la Sagrada Familia, si può ascoltare per giorni scoprendo nuovi particolari ogni volta.
The beach”, la fiducia, l’abbandono totale all’altro da sè.
Throughout”… uno scoglio al tramonto, il mare tranquillo, le palpebre chiuse assaporano il vento, i cinque minuti di pace salmastra che stavo cercando.
Un gabbiano che vola leggero, traiettorie di poche pretese, brevi, ripetute.
E’ contento così.
Vola.
(LaRoma, 09.04.2007)

CHARLOTTE GAINSBOURG

5 : 55 (2006)
Brigitte Bardot, Isabelle Adjany, Sophie Marceau, Jeanne Moreau, Beatrice Dalle, Jane Birkin: chi non ha mai sognato e desiderato una ragazza francese, dal fascino capriccioso e intrigante, decisamente francese?
Charlotte Gainsbourg è la meno esagerata della compagnia, ma vederla nel video di “the songs that we sing“ tratto da un bellissimo ed inaspettato album, alle 4 del mattino di una notte insonne, mi immobilizza letteralmente, meravigliato: magica unione tra la dolcezza del brano - forse il più sensuale di uno splendido disco - ed il fascino malinconico della sua interprete.
Non mi ricorderò certo in futuro i motivi della totale assenza di sonno di quella notte, ma del pianoforte degli Air e della voce di Charlotte, sì.
Potenza della musica.
(Mark Shenker– 09.04.2007)

lunedì 9 aprile 2007

GUN CLUB

Fire Of Love (1981, Ruby Record)
Un canto che esce dall’anima, un canto maledetto, l’America del sud, il Kkk, il voodoo, bourbon e chitarra.
Qui non è come “Il colore viola”, qui finirà male, ma in questo disco c’è tutto il blues suonato e filtrato dall’esperienza punk e new wave.
E’ il periodo degli X, Wall of Voodoo, Cramps, si torna alle radici della musica americana per rileggerla in chiave moderna senza per questo dimenticare il passato.Una highway senza fine, una bottiglia di Jack Daniels, un motel lungo la strada, una puttana triste nel letto, mal di testa, male al cuore, male all’anima; solo la musica può lenire le ferite. E allora salgo sul black train e vado all’inferno.Come dicono i grandi musicisti neri :”il blues si regge su 3 accordi, chiunque li può suonare, ma se non ci metti l’anima, il cuore, la passione, non è niente. Quello fa la differenza.”.
Ogni volta che ascolto questo disco, avverto un senso di disagio, quasi imbarazzo per essere seduto tranquillo sulla mia poltrona ad ascoltare chi ha fatto della vera musica una ragione di vita e mi urla in faccia la sua disperazione.
Jeffrey Lee Pierce amava il blues più della sua stessa vita, finita presto per i troppi abusi.
Jeffrey Lee Pierce era bianco.
Jeffrey Lee Pierce suonava musica che veniva dall’anima.
(Lillo Lydon, 9.4.2007)

venerdì 6 aprile 2007

MARK LANEGAN BAND

Bubblegum (2004)
Voce & semplicità
Voce.
E' unica, fa venire i brividi ed è una carezza che arriva al viso.
E' il malinconico tepore di Leonard Cohen.
Semplicità.
Quella delle cose belle.
E' la scorrevole musicalità di Neil Young.
Magia & melodia
Magia.
I suoni fanno le atmosfere, e lo fanno al meglio.
E' la magia sobria dei suoni di Tom Waits.
Melodia.
Ballate e piccole perle di genialità.
Come le melodie tenebrose di Nick Cave.
A volte la sintesi è capolavoro
.
Per provare emozioni sincere.
Da ascoltare al buio.
(Nello Baffetti, 6/3/2007)

SMITHEREENS

Especially For You (1986, Enigma)
Il suono degli anni '60.
Album d'esordio per la pop band di Pat DiNizio che sforna una successione di ballate pop semplici e orecchiabili.
Non ho dimenticato una canzone, un riff... tutto è ancora lucido nei pensieri a distanza di 20 anni.
In auto, sotto la doccia, mangiando, in relax... un album che ha accompagnato per diversi mesi, i gesti quotidiani delle mie giornate.
Mette allegria, infonde quella carica leggera, ma allo stesso tempo sicura ed efficace, che esplode nella voglia di fare.
Gran bel disco!
Tanti riferimenti, tante citazioni, quasi a volerci raccontare che il pop ha un suo spessore, ben oltre la leggerezza delle "canzonette", che esistono buone composizioni e buone esecuzioni: e così si strizza l'occhio a Rolling Stones, Roy Orbison, Beatles.Pop in New York.
Gran bel disco! Decisamente.
(Nello Baffetti, 5/4/2007)

mercoledì 4 aprile 2007

ALICE IN CHAINS

Sap (1992, Columbia)
…. erano forse la band più elettricamente Hard Rock della cosiddetta ondata Grunge-Alternative di Seattle …. quella dalle origini più classicamente Hard & Heavy ed in cui le “contaminazioni” in stile Detroit o Post-Punk erano sicuramente minime, ridotte sostanzialmente all’utilizzo del basso cavernoso ed alla batteria essenziale …. erano già una band interessante con il loro esordio “Facelift” ….. ma con questo mini-lp riuscirono a entrare direttamente nel mio mondo musicale, diventando la colonna sonora di tanti miei momenti … tristi e sofferti come le vite di chi le suonava ….. sì …. perché paradossalmente gli Alice In Chains hanno sempre trovato (anche poi col seguente Jar Of Files) la loro più pura espressione artistica in ballate elettroacustiche in cui spiccava da un lato capacità costruttiva delle chitarre di Jerry Cantrell e – ovviamente – la voce malata, veramente intossicata di Lyne Staley nel suo cantare la sua progressiva autodistruzione nelle droghe, un’ode alla morte che troverà la sua apoteosi nel seguente “Dirt” …. ed in questo contesto la sensibilità musicale, la sinuosità, il carattere avvolgente di questi pezzi è e rimane tuttora ancora mirabile …… ed ancora di più la tristezza, malinconia coinvolgente che queste canzoni ti sanno dare e che rimandano nella mia mente inevitabilmente ancora a quelle notti, in giro in macchina per le strade dell’Oltrepò, a vagare con una sigaretta ed una birra …. da solo o con LaRoma a sfogare le nostre reciproche “depressioni” ….. a celebrare le nostre lacrime od a cercare “indirettamente” nella sintonica risonanza tra musica ed anima, quell’oblio cantato … e poi trovato proprio dal cantante.….. ed ancora oggi a 15 anni di distanza, quando metto giù il muso ed ho il mio periodo misantropico, questo mini è ancora così sincero, ad accogliere il mio animo e le sue turbolenze …… e l’arpeggio di chitarra di “Got Me Wrong” mi accarezza ancora una volta …..
ROCK ON
(The Lawyer – 04.04.2007)

martedì 3 aprile 2007

STOOGES

Fun House (1970, Elektra - Rhino)
Parlando di Made In Japan dei Deep Purple, ho parlato di una visione progressiva dell’Hard Rock, completamente avulsa dal concetto di Progressive Rock … beh ho sempre ritenuto che anche questo disco si muovesse su questa linea sia pure sotto un’ulteriore angolo diverso …… Fun House è un folle ma geniale viaggio elettrico allucinato lungo i territori della dilatazione tra Hard Rock, Rock-Blues e Free Jazz … così come il primo mitico album degli Stooges era un concentrato esplosivo, malatamente innovativo del Rock Acido - sotto la produzione di un geniale compositore avant-garde dalla formazione classica quale John Cale - che “celebrava” la fine degli anni ’60 …. Fun House assorbe e mixa la tensione elettrica e violenta della carica musicale di quei quattro teppisti acidamente disperati di Detroit lungo un sentiero sapientemente definito da un’altra e diversa “guida”, un personaggio chiave del Garage-Rock anni ’60, Don Gallucci, il tastierista dei Kingsmen … quelli di Louie Louie. Il risultato è una scarica violenta e selvaggia che grida la fine dei ‘60’s e annuncia gli ancora più duri, cinici e disperati anni ’70 (in questo senso essenziale è il vedere nei due album due pezzi simbolicamente intitolato 1969 e 1970) con la fine definitiva dell’Hippie Dream (già preannunciata nell’album precedente). Se “The Stooges” aveva con sé forse più “hits”, Fun House è più completo, più solido compositivamente, è un disco fatto da 7 pezzi di musica totale….. a 360° ed è soprattutto un album che non invecchia assolutamente, che si rinnova di ascolto in ascolto in una dilatazione di sensazioni che nella mia mente malata hanno avuto sempre il colore rosso fuoco della cover, il fuoco ardente della forza e del dinamismo delle composizioni, della bruciante Fender Stratocaster di Ron Asheton (the One and Only Kerosene Guitarist!!!), della pulsante sintonia basso-batteria di Dave Alexander & Scott Asheton ….. sensazioni che ancora oggi mi fanno venire i brividi alla schiena quando penso ed ascolto una simile sequenza memorabile di pezzi, tra l’altro posti con sapiente maestria da Gallucci in un ordine quasi perfetto ….Down In The Street apre, dà il ritmo, lo tira su … esplode, poi sembra rilassarsi, ma non fa altro che aprire lo spazio per il furore (ancora più) Hard Garage-Rock di Loose un pezzo veramente libero, scatenante che non si può non suonare quando si è in macchina ad alta velocità, teso, con l’incrociarsi di chitarre dure, taglienti ed acidissime …. per poi passare alla ancora più tesa e nervosa T.V. Eye dal riff circolare ed ipnotico, che nel vibrare del riverbero della chitarra apre alla magia perversa e disperata di Dirt, forse uno dei migliori Tre Blues Bianchi di sempre, così sinuoso nella sua postvelvetiana atmosfera, fatta di catene, collari sadomaso e passioni d’amore tanto brevi quanto intense, nel suo ritmo totalmente inusuale, ma ipnotico e con uno stacco centrale di chitarra da parte di Ron Asheton assolutamente da sbavare ….. una chitarra che incendia l’aria intorno a sé in note di un’intensità perversa assolutamente da brivido …. ed ancora una volta il finale che abbassa il tono, quasi come un corpo che si esaurisce e rilassa dopo il massimo momento di concentrazione e di piacere o dolore ….. un dolore che sembra quasi emergere dai solchi del disco allorché si apre e si lancia come una cavalcata impossibile la fantastica 1970 in cui forse la band dà il suo meglio collettivo … celebrando quasi con tragica lungimiranza la fine del sogno e l’inizio dell’incubo con un Hard Rock tribale, primitivo ed ipnotico in cui svetta Iggy ed i suoi urli e che poi si apre “progressivamente” attraverso lo stupendo sax Free Jazz di Steve Mackay …. sax protagonista poi della stupenda jam Hard-Psych-Free-Jazzy di Fun House in cui sentiamo la band quasi fosse di fronte a noi …. in una festa a suonare continuamente lungo la notte, fino allo sfinimento in quasi un disperato tentativo di cogliere e celebrare la vita …. vita che sembra quasi volersi negare in quell’urlo-pezzo assolutamente folle e disturbante, orgasmicamente caotico, ma così evocativamente simbolico che è L.A. Blues. …… ed in mezzo … al centro di questo calderone pluridimensionalmusicale … lui il disperato signore del caos dal cuore pieno di napalm …..Iggy …. IGGY POP che guida, da il tiro ad una band che già di tiro ne aveva tantissimo, che domina con i suoi urli con il suo lasciar vibrare dentro ogni suo muscolo l’elettricità della musica …. che canta la sua perdizione, il suo essere “Dirt” sporco, ma anche il suo essere “Loose” scatenato, libero di volare in alto dentro la sua Casa dei Divertimenti (Fun House).…. ed in basso ancora una volta Io che ancora una volta schitarro ed agito la testa ed apro la bocca in gesto di grido liberatorio, totalmente posseduto dalle note e dalla forza di questo disco, dalle sensazioni …. dal piede che continua a muoversi, dalle pulsazioni e dalle emozioni. Per qualche minuto anche io riesco a sentirmi veramente libero ……..
ROCK ON
(The Lawyer – 03.04.2007)

NOTA: nell’edizione Remaster di due anni fa, se sul primo cd vi sono i sette pezzi originali, sul secondo, abbiamo 14 brucianti outtakes delle sessions che la band tenne con lo stesso Don Gallucci (mitico organista dei Kingsmen) e Bryon Ross-Myring negli studi Elektra Sounds. Due Inediti: Lost In The Future & Slide The Blues.