
Sono naufragato.
Troppa inutile terraferma che proietta miraggi, troppa riduzione di complessità, troppe semplificazioni, troppi compromessi accettati (necessari o creduti tali) perdendomi pian piano di vista, in affannosa ricerca di pace con me stesso.
Mi sento una foto sfocata, energie nervose al lumicino.
Musica rifugio, dentro così tanto di me da cercare proprio lì segni di un’identità alla deriva.
Cuffie, luce da penombra e “Works” di Bill Frisell.
Mi aveva fatto crescere e accompagnato, tirandosi poi timidamente in disparte come un genitore che assolto il proprio compito ti lascia libero di andare a cercarti da solo la tua strada.
Mi fa ritrovare di colpo una cosa precisa, nitida: rivedo i miei disegni, che tanta parte di me si portavano dentro, tutte le mie ossessioni, le solitudini, la mia introversa ma solare voglia di vivere “insieme”, la scintilla al centro del mio corpo che lo faceva vibrare di vita.
C’è il tavolo scarno, la stanza ormai buia, notte fonda e sempre più freddo, il morso del sonno vano contro la mia ferrea forza di volontà: ho musica, foglio e matita e urgenza, devo spiegarmi, gridare garbatamente al mondo che esisto e sono fatto così.
E’ tornare a casa.
Il paese è cambiato, la gente è diversa ma c’è ancora la mia casa.
Questo è per me (l’eclettico e sterminato, ma non interessa ora) Bill Frisell.
Qui - non soltanto ma specialmente qui - la sua musica è tutto quel che vorrei dire nel modo in cui vorrei saperlo dire: io, se fossi, se potessi essere suono.
Molto più somigliante di qualsiasi foto. Un ritratto teso, inquieto, obliquo, a tratti poesia lancinante eppure insieme dolcissimo e commovente.
Maledettamente fedele.
Indietro non si torna, no; ma ora ricordo chi sono stato, dove sono passato.
Ogni singola nota, suono, è una tessera del mosaico che io sono. Mi appartiene e definisce.
“Black is the color of my true love’s hair”, come guardare la Sagrada Familia, si può ascoltare per giorni scoprendo nuovi particolari ogni volta.
“The beach”, la fiducia, l’abbandono totale all’altro da sè.
“Throughout”… uno scoglio al tramonto, il mare tranquillo, le palpebre chiuse assaporano il vento, i cinque minuti di pace salmastra che stavo cercando.
Un gabbiano che vola leggero, traiettorie di poche pretese, brevi, ripetute.
E’ contento così.
Vola.
(LaRoma, 09.04.2007)
Troppa inutile terraferma che proietta miraggi, troppa riduzione di complessità, troppe semplificazioni, troppi compromessi accettati (necessari o creduti tali) perdendomi pian piano di vista, in affannosa ricerca di pace con me stesso.
Mi sento una foto sfocata, energie nervose al lumicino.
Musica rifugio, dentro così tanto di me da cercare proprio lì segni di un’identità alla deriva.
Cuffie, luce da penombra e “Works” di Bill Frisell.
Mi aveva fatto crescere e accompagnato, tirandosi poi timidamente in disparte come un genitore che assolto il proprio compito ti lascia libero di andare a cercarti da solo la tua strada.
Mi fa ritrovare di colpo una cosa precisa, nitida: rivedo i miei disegni, che tanta parte di me si portavano dentro, tutte le mie ossessioni, le solitudini, la mia introversa ma solare voglia di vivere “insieme”, la scintilla al centro del mio corpo che lo faceva vibrare di vita.
C’è il tavolo scarno, la stanza ormai buia, notte fonda e sempre più freddo, il morso del sonno vano contro la mia ferrea forza di volontà: ho musica, foglio e matita e urgenza, devo spiegarmi, gridare garbatamente al mondo che esisto e sono fatto così.
E’ tornare a casa.
Il paese è cambiato, la gente è diversa ma c’è ancora la mia casa.
Questo è per me (l’eclettico e sterminato, ma non interessa ora) Bill Frisell.
Qui - non soltanto ma specialmente qui - la sua musica è tutto quel che vorrei dire nel modo in cui vorrei saperlo dire: io, se fossi, se potessi essere suono.
Molto più somigliante di qualsiasi foto. Un ritratto teso, inquieto, obliquo, a tratti poesia lancinante eppure insieme dolcissimo e commovente.
Maledettamente fedele.
Indietro non si torna, no; ma ora ricordo chi sono stato, dove sono passato.
Ogni singola nota, suono, è una tessera del mosaico che io sono. Mi appartiene e definisce.
“Black is the color of my true love’s hair”, come guardare la Sagrada Familia, si può ascoltare per giorni scoprendo nuovi particolari ogni volta.
“The beach”, la fiducia, l’abbandono totale all’altro da sè.
“Throughout”… uno scoglio al tramonto, il mare tranquillo, le palpebre chiuse assaporano il vento, i cinque minuti di pace salmastra che stavo cercando.
Un gabbiano che vola leggero, traiettorie di poche pretese, brevi, ripetute.
E’ contento così.
Vola.
(LaRoma, 09.04.2007)
Nessun commento:
Posta un commento