"...una stagione dell'esistenza, un patrimonio collettivo da ripercorrere, un ricordo depositato"


questo è un luogo dove si raccolgono le sensazioni suscitate dai dischi, dalla loro ricerca, al loro possesso, ai ricordi che evocano

non vogliamo parlare dei dischi, ma delle emozioni che ci hanno dato

giovedì 28 giugno 2007

SLEEPY JACKSON

Personality: One Was A Spider One Was A Bird (2006)
Mi sembra di vederlo… il pasticciere, col suo camice bianco.. immacolato… che lavora la sua torta nuziale con rara maestria… “Personality” è una di quelle enormi torte a piani… è bianca, piena di fregi, merletti,fiori di marzapane…
Luke Steel lavora la glassa delle melodie come pochi…la stende col suo coltello bagnato nell’ego smisurato che lo contraddistingue… basti pensare al doppio che c’è in copertina!!
Ci appaga, ci fa scoccare il palato…a volte un po’ nauseabondo, anche per i più golosi…ma un esteta non può che apprezzare la pulizia, la perfezione, seppure al limite del barocco.
Quando ho sentito i ritocchi argentati, i coretti…non ho potuto non pensare a quanto possa essere godurioso lavorare ad una simile delizia, di quelle che pagano tutti i sensi.
Niente di rustico, di improvvisato, nessuna sbavatura: questa è alta pasticceria!
Luke volteggia attorno alla sua creazione…un megalomane del gusto, un fanatico della forma, dell’apparire.
“How was I supposed to know” chiude…è il momento finale, il pasticciere ripone la frusta, i coltelli, le spatole…pulisce il suo banco d’acciaio, sorride a se stesso, immaginandoci sfiniti di piacere e già pronto per la prossima lezione di stile.
(Cince, 24.06.2007)

martedì 19 giugno 2007

BEN HARPER

Welcome To The Cruel World (1994, Virgin)
Stop: l'ultima traccia è passata ed insieme si è chiusa quella linea di contatto con la propria anima fatta di emozioni e sentimenti, incredibile che delle semplici note abbinate a parole ti possano accompagnare in un viaggio introspettivo.
Ma la musica, come tutto del resto, ha una fine e quando questa ti travolge eccoti qua proiettato nella realtà con qualcuno che ti sussurra Welcome To The Cruel World.
Questo disco è un'anticamera alla realtà e quello che trovo strepitoso è l'energia che ti trasmette per poter affrontare il Cruel World che ci circonda.
Muttley(Muttley, 18.06.2007)

mercoledì 13 giugno 2007

THE SMITHS

The Queen Is Dead (1986)
Non voglio ripetere cose già dette e ridette né tantomeno entrare nel merito di discorsi tecnici su questo disco (i testi blabla, morrissey bla, la chitarra di marr blabla) non aggiungerei nulla di nuovo e non ho neanche le competenze per farlo …ma voglio solo fare la mia piccola parte.
Tutti i giorni prendiamo e lasciamo qualcosa, anche dalle più insignificanti situazioni, siamo il frutto dell’interazione del nostro Dna con l’ambiente esterno, la nostra coscienza cambia ogni centesimo di secondo e non è mai come prima per quanto ciò sia spesso inavvertibile a noi stessi…ma capita ogni tanto che qualcosa sconquassa, plasma e allora riesci ad apprezzare la tua anima che si contorce, che urla che non riconosce più il tuo essere come è stato fino a quel momento e ti senti nuovo, magari inadeguato, ma splendidamente rinnovato, come trovare al buio un piccolo interruttore, lo premi ed ecco comparire la stanza dei bottoni.
Può un disco fare tanto?
Forse si.
(Tetokawa 13.06.2007)

martedì 12 giugno 2007

domenica 10 giugno 2007

JEFF BUCKLEY

So Real - Songs from Jeff Buckley (2007)
V A F F A N C U L O.
Esatto,
V-A-F-F-A-N-C-U-L-O.
Scusate il recente presenzialismo, ma ho avuto un moto di stizza e rabbia talmente immediato e virulento quando ho visto in negozio questo cd che ho sentito di doverlo dire a qualcuno, e la vostra - la nostra - è sicuramente la platea più adatta che conosca allo scopo.
Sia chiaro, niente di nuovo sotto il sole: i dischi postumi sono una pessima consuetudine dell'industria discografica, rare volte hanno fatto conoscere qualche gemma musicale che l'artista scomparso avrebbe forse deciso di pubblicare (ma che forse non avrebbe mai fatto uscire in uno stato appena abbozzato...), e molto più spesso sono state schifose speculazioni per far fruttare quattrini da un nome che ormai dalla sua nuova residenza non potrà più porre alcun veto.
Tutto già detto e risaputo.
Però far l'abitudine alla puzza di marcio è lasciare la porta di casa aperta così che qualsiasi monnezzaro (scusate lo slang delle origini) si senta in diritto di scaricarci dentro anche le sue porcherie, è queto che vi invito a non permettere che si faccia.Jeff Buckley con un pugno di canzoni è diventato leggenda per le sue incredibili qualità vocali e di interprete, e per le sue canzoni che in certi casi a mio parere toccano quei vertici di perfezione assoluta cui pochi altri sono riusciti ad arrivare nella musica, prescindendo dai generi.
In DoktorP chi vuole trova appassionate scrittura e analisi su lui e le sue opere da cui ne emerge la grandezza, riconosciuta indistintamente da tutti, la sua capacità propria degli eletti di stordire l'ascoltatore di emozioni fortissime.
L'uscita dell'ennesima raccolta che si permette(!!!!!!) di fare una selezione dei brani di "Grace", che ci ficca dentro un paio di inediti (n.b.: che escono uno qui uno là, NON TUTTI INSIEME come ci si aspetterebbe se l'esigenza fosse quella di "...non tenere chiuse nel cassetto queste meraviglie, Jeff avrebbe voluto così..." ) giusto per agganciare qualche nuovo ascoltatore sfruttando l'esposizione pubblicitaria che si dà al "nuovo", è un'operazione vomitevole.
Chi non conosce Buckley ne ascolti i pochi album ufficiali, e resista alla tentazione degli inediti; personalmente, anche se così facendo mi perdessi la sua canzone più bella, sarò una briciola più contento di me stesso: chi l'ha detto che un sorriso, un attimo di felicità non si possa raggiungere anche con una rinuncia?...
(LaRoma, 10/6/2007)

mercoledì 6 giugno 2007

AREA

Arbeit Macht Frei (1973, Cramps)
Bene, facciamolo. Volevi sensazioni, pelle che scotta, ulcerazioni? Le mie arrivano.
Torno da lavoro alienante, nessuno con cui rapportarmi lungo ugual lunghezza d'onda, viaggiare in macchina musica a balla per sentirmi vivo e migliore del giorno che andrò ad affrontare, sgolandomi sul mio pentagramma che forse (speranze dure a crepare) nessuno si inietterà mai, ma che è la mia vera carta d'identità: chissà se qualcuno ci avrà mai pensato, la "verità" disponibile in sensazioni marchiate dentro e insieme esposte al pubblico, e non racchiusa in dati anagrafici che appiattiscono, negano un ruolo all'empatia, all'improvvisazione, allo sforzo interpretativo e conoscitivo dell'altro di fronte a noi.
Ok. Sto viaggiando contro me stesso "in aiuto" chimicalcoolico, resistere resistere resistere, l'aderenza alla "realtà" si alleggerisce, lascia interstizi dove la serpe mentale del ragionamento critico striscia, sguscia, si insinua.
Per assecondare il viaggio come sempre c'è musica, ma non la sto ascoltando: sono IMMEDESIMATO.
AREA. "Arbeit macht frei", 1973 (!, un punto perchè potrei metterne altri cento, e cosa cambierebbe?).
ENERGIA, creatività, fantasia, dinamismo, ritmo le prime parole.
E poi quelle più scontate sui virtuosismi - secondo alcuni un pò fini a sè stessi, a me non pare - di Stratos/Tofani/Fariselli/Capiozzo/Djivas poi Tavolazzi, e compagnia collaborante.
Serbo di questo momento di verità della mia vita (reso tale anche e non secondariamente dalla scoperta di questo album, e dal seguente "Crac", soprattutto; ma anche da episodi successivi forse nell'insieme meno fulgidi) alcune istantanee DoktorP-collegate: la figura ferroviaria mattutina di Lillo L., il fratello maggiore che divulga e ne sa sempre più di te, a cui hai timore reverenziale di rivolgerti. Stima e gratitudine, senza piaggeria.
Calone per il confronto dissuasivo sulle sostanze e l'aiuto bonario. Dimenticavo: e per l'entusiasmo malcelato e "muffato" dovuto ad ascolti precolombiani di pezzi cui io colpevolmente arrivo solo ora, e che lui sconsiglia per i deboli di pelo e per chi si può illudere "tout court".
Vincenzo, il mio nuovo tatuatore, scelta di un dolore ragionato e finalmente condivisibile.
Elena, un cuore.
Per favore, ascolti chi già non l'ha fatto "Consapevolezza", "Arbeit macht frei", "Luglio, agosto, Settembre (Nero)", e il resto... e poi cercatevi "Gioia e rivoluzione", "Giro, giro tondo", "La mela di Odessa", "L'elefante bianco", e...se scoprite di averne con questa fantasmagoria musicale, lasciate fare alla vostra sintonia interiore.
Io ho scoperto un hammam, è la mia dissolvenza attuale.
Saluti.
(Deliri (?) della Roma).
(LaRoma 6/6/2007)

domenica 3 giugno 2007

Wild Billy Childish and the Musicians of the British Empire

Punk rock at the British Legion Hall (2007, Damaged Records / Goodfellas)
Non so dirvi se questo sia un disco di gran valore assoluto o meno.
Di certo mi ha fatto accendere quella lampadina, drizzare quelle antenne che con la musica che ormai si sente nei luoghi pubblici in Italia restano spesso ripiegate, e così sono costrette a ricorrere a ricordi del passato per trovare quell'entusiasmo che la musica al pari di altre forme d'arte, quando viene da talento e urgenza comunicativa anzichè da pianificazione e clichè modaioli, sa generare...almeno in chi la sente vivere e ne vive.
Sono in pausa pranzo in un "centro multimediale" milanese, reparto cd, vedo tra le novità questa copertina intrigante, provo ad ascoltarlo...pezzo d'apertura, assolutamente coinvolgente, e il bello è che l'effetto è ottenuto con i soliti vecchi 4 accordi di pop-punk all'inglese, un suono sporco, basso chitarra e batteria che formula più scontata non si potrebbe, eppure... tiene a' cazzimma!!!
Proseguo e l'entusiasmo resta immutato, adoro la traccia 4, il blues della 5 alla Jon Spencer o giù di lì, i suoni talvolta da garage band, talvolta proto punk, e arrivo alla fine senza stanchezza. chiedo a Hoobik con un sms se ne ha mai sentito parlare e mi dice di esserne entusiasta, che Billy Childish è sulla breccia da una vita e non ha mai sbagliato un disco per quanto gli consta...
Ok, acquisto, piazzo nel lettore in auto e...a distanza di parecchi ascolti resiste imperterrito!!! Per me, se amte suoni sixties e il resto che ho già detto, caldamente consigliato, specie di questi tempi.
Grande Billy!
(LaRoma, 3.06.2007)

sabato 26 maggio 2007

GOMEZ

How We Operate (2006)
Le 6.30, il treno parte verso Milano, come ogni mattina da quasi vent’anni.
Nelle orecchie (ah….l’I-Pod che invenzione per noi pendolari,,,) l’ultimo cd dei Gomez.
Guardo fuori: si susseguono le case e le risaie, i campi e le stazioni; chiudo gli occhi e si susseguono le emozioni.
Musica melodica, ma non ruffiana, leggera ma affascinante, pop nel senso migliore del termine.
Rimandi al country americano per questo gruppo inglese che cura gli arrangiamenti come fosse l’opera di un artigiano senza per questo appesantire la musica, anzi.
Immagini agresti e malinconia, colonna sonora ideale per un viaggio sempre uguale a se stesso, come se la musica entrasse dai finestrini e riempisse di gioia la carrozza.
Ed allora se guardo fuori vedo un mondo diverso.
Milano, stazione di Rogoredo, scendo in metrò ed il sogno è finito….a domani.
(Lillo Lydon, 26.05.2007)

domenica 20 maggio 2007

SCREAMING TREES

Buzz Factory (1989, SST)
Ultimo album per la SST.
Ultimo album del decennio.
Il loro ultimo album Hard Rock?
Ricordi di frammenti live dal Bloom, al Rolling Stone, a Villa Arconati (almeno credo); sinceramente non ricordo distintamente.
Il tutto si impasta nella mia memoria così come il loro suono, ma non importa.
Sicuramente Lanegan era aggrappato-immobile al suo microfono al centro del palco mentre i due esili fratelli Conner e Mark Pickerel facevano tremare tutto così come il loro suono.
Le loro canzoni più belle forse sono su Sweet Oblivion (Nearly Lost You, Dollar Bill e Shadow Of The Season).
Ma questo non vuol dire nulla.
(Hoobik, 20.05.2007)

FUGAZI

Red Medicine (1995, Dischord)
Ok, non è Rereater,
ma non è neanche il 1990.
Il gruppo che ha inventato il post-rock; cosa vuol dire non lo sò, ma l'approfondimento tecnico di questo disco è per me ostico, come può essere così tecnico ed allo stesso tempo così immediato?
Tre pezzi su tutti:
Do you like me - fatta di pennate laceranti che pian piano ti invadono
Forensic scene - dalle incredibili melodie
Long distance runner - per chiudere l'album, ma per aprire un nuovo futuro.
(Hoobik, 20.05.2007)

MUDHONEY

Touch Me I'm Sick/Sweet Young Thing Ain't Sweet No More (7" - 1988, SubPop)
Mi sono visto entrare ed uscire da infiniti negozi di dischi, fiere del disco, bancarelle dell'usato, magazzini di dischi forati etc etc.. tutto questo spendendo un capitale, dato che praticavo lo sport più criticato dai miei idoli: il consumismo.
Mi sono visto girarmi e rigirarmi questo disco tra le mani, pregustando ciò che mi aspettava appena arrivato a casa, la promessa che stavolta avrei spaccato tutto saltando sul letto come uno sfigato adolescente qualsiasi.
Mi sono visto precipitarmi a casa.
Mi sono visto estrarre il disco con questi solchi neri rilucenti.
Mi sono visto ipnotizzato dall'etichetta lì nel centro come se quelle scarse note potessero darmi la forza per affrontare questo enorme passo verso l'ignoto.
Mi sono visto mentre metto il disco sul piatto; per un secondo il nulla poi il momento della verità, la puntina nel solco e finalmente......
(Hoobik, 20.05.2007)

sabato 19 maggio 2007

POLLY PAULUSMA

Fingers & Thumbs (2007, One Little Indian)
Quando l’attesa ti consuma e non vedi l’ora che arrivi il momento, ma le ore non passano mai, quasi che il tempo apposta si sia fermato.
Quando finisce un amore e sei certo che non riuscirai a stare senza, e ti domandi il perché sia potuto accadere ma non trovi risposte adatte.
Quando un insuccesso ti fa crollare il mondo addosso, nudo di fronte al giudizio degli altri, anche se in cuor tuo sai di avere la coscienza a posto e di aver fatto quello che dovevi.
Quando una persona cara ti viene a mancare e capisci che la vita di ognuno di noi è appesa ad un sottilissimo filo che un niente può spezzare, finti onnipotenti in questa società di arrivisti e leccaculo.
Quando vedi con i tuoi occhi le ingiustizie ed i soprusi, la fame e la povertà, e ti domandi come possa l’uomo essere così crudele, negare il diritto di vivere con dignità in nome del denaro e del potere.
Quando accendi il televisore e capisci di vivere in una società drogata, costruita sulla menzogna, e tutto è in mano a pochi avvoltoi che si contendono gli ultimi brandelli di un paese allo sfascio.
In ognuno di questi momenti hai bisogno di un aiuto, di credere che non tutto è marcio, che cè una speranza e qualcosa può ancora cambiare.
Hai bisogno di una voce, di questa voce, stupenda, leggera come una piuma ma capace di andare in profondità, di darti gioia ed allegria, di rilassarti ed emozionarti.
E dopo un disco d’esordio completamente acustico ecco l’inserimento delle chitarre elettriche, che si ispirano al Neil Young di “Everybody knows this is nowhere”, come spiegato nelle note al cd.
Un disco da gustare completamente, uno scrigno con 10 perle per chi ama le melodie che toccano il cuore.
E pazienza se non sarà mai un disco di successo o non girerà su Mtv.
Perchè finchè ci sarà qualcuno che canterà così, ci sarà sempre qualcuno che verrà a prenderti in fondo al pozzo e ti porterà via.
(Lillo Lydon, 18.05.2007)

martedì 8 maggio 2007

X

See How We Are (1987, Elektra)
Caro DoktorP,
mi vedo costretto a scrivere la presente a causa del disgusto che provo nello scorrere l'elenco dei dischi: è una vergogna che dopo oltre 80 dischi commentati, nessuno si sia degnato di raccontare qualcosa sugli X!
"Generazionale" è il primo termine che mi viene in mente quando penso al gruppo.
Personalmente mi sento il meno indicato per parlarne, dal momento che ho snobbato il primo album alla sua uscita; e solo 3 anni più tardi, dopo aver visto la scena del camper che gira per le vie di Los Angeles, con l'omonimo brano in sottofondo, ne "Lo Stato Delle Cose", mi sono riavvicinato all'album...io, arrivista... ma questa è un'altra storia.
Non essendo degno quindi, di raccontare l'ascolto di "Los Angeles", pago il mio fìo sull'album meno di pancia del gruppo.
Nel 1987 la musica la si ascoltava su vinile e si trasportava in auto con degli strani nastri, marroni e lunghissimi, tanto che una volta aperti non si riusciva più a riavvolgerli a meno di rinuciare a qualche ora di sonno, chiamati cassette o musicassette.
Bene, la cassetta di questo disco è stata rifatta 3 volte, tanto lo ascoltavo!
Ciò premesso, la seconda considerazione che voglio fare è che non mi è ancora passata la voglia di correre quando ascolto "Surprise Surprise". Carica di energia che non ha raffronti nemmeno con l'ultimonatodiqualsiasicosa in casa Beghelli.
Il mito Exene non ha bisogno di considerazioni particolari, tanto particolare è la voce, quanto le melodie che disegna. Anche lei ha scritto la storia.
I suoni, complici sicuramente il nuovo chitarrista Tony Gilkyson (ex Lone Justice) ed il sempreverde Dave Alvin, sono da antologia del rock.
Mi piace considerarlo come l'album più "maturo" del gruppo, anche se certamente il meno innovativo. Certo, il sorriso di Billy Zoom era un'altra cosa...
Non ho detto molto del disco, lo so, ma mi viene difficile; l'ho amato, mi ha dato tante cose, mi ha accompagnato per diverso tempo, tutto sommato è una parte della mia vita e forse, ne sono geloso.
Adesso ti saluto, DoktorP, felice ed appagato per aver contribuito a colmare una lacuna grave oltre che troppo vistosa.
Ce ne sono altre, lo sappiamo, ma il tempo ci è amico...amico mio.
(NelloBaffetti 8/5/2007)

lunedì 7 maggio 2007

VAN MORRISON

Astral Week (1968, Warner)
Ci sono dischi che bisogna ascoltare con gli occhi chiusi, in completo isolamento, nel silenzio totale, per poter essere una cosa sola con la musica, viverla non solo emozionalmente ma quasi fisicamente, lasciarsi trasportare dal mare delle emozioni, naufraghi senza una meta aggrappati a ciò che la musica ci può offrire: l’anima.
Questo è uno di quei dischi, incredibile per la tensione emotiva che sprigiona, in cui le canzoni si susseguono come fossero una sola canzone, unendo ad una strumentazione tradizionale l’uso dell’orchestra, con violini e flauti che accompagnano la voce di Van Morrison nei territori del folk, del jazz, del blues,della musica celtica a cantare il tormento interiore.
Vale per tutti la magnifica “Ballerina”, 7 minuti di estasi musicale in cui, quasi posseduto dal demonio della musica, in un crescendo rossiniano regala gioia e malinconia, amore e dolore.
E risulta difficile scrivere delle emozioni che ti regala questo disco, trovare le parole senza essere banale, mettere sotto gli occhi di tutti ciò che rappresenta per te, ciò che ogni ascolto evoca e provoca.
Allora provate anche voi: chiudetevi nella vostra stanza e ascoltate questo disco ad occhi chiusi…alla fine non sarete più gli stessi.
(Lillo Lydon– 07.05.2007)

venerdì 4 maggio 2007

WALKABOUTS

Satisfied Mind (1993, SubPop German)
Mattinata piovosa ed inutile; una di quelle che non lasciano molto spazio alle aspettative per il resto della giornata...
Chi vuole approfittare dello spleen che si profila all'orizzonte si faccia avanti.
Forse le ombre della notte hanno varcato il confine del buio e si sono propagate sotto la luce, debole ed incerta, di un cielo carico di nuvole gonfie e grigie.
Una gretsch lancia un assolo, un lamento, una nenia sommessa...mi faccio avanti.
Alzo un po' il volume e metto in loop il pezzo che sto ascoltando.
Questo è uno dei tanti album che la polvere del tempo ha tentato di farmi dimenticare.
Dimentichiamo cose, momenti, persone, per far spazio a vissuti recenti che a volte non ci appartengono neppure molto; ma è consolante pensare che anche questi, lentamente, cederanno il passo ad altri, e c'è sempre speranza in qualcosa di meglio in arrivo... da lontano.
Un po' di calore arriva dalla musica che pervade l'ambiente, un po' ce lo metto io con i miei ricordi, un po' arriva dal pensiero che mai nulla viene dimenticato veramente.
E così pensi che un ricordo è bello soprattutto quando è condiviso, proprio come le canzoni; non ha molto senso che siano cantate da una sola voce, la loro vera emotività si scatena quando vengono eseguite da altri.
"Satisfied Mind" è un album di cover. ...E sì, suonato e cantato da chi le canzoni non le ha composte, ma le "sente" e le comunica.
L'ascolto di questo disco ha "sospeso" il tempo: non so se è ancora mattina, non so se posso andare, non so se devo crescere, ancora una volta.
E visto che non so, non voglio sapere: lo ascolto di nuovo.
Chi vuole approfittare...si faccia avanti!
Dimenticavo, il brano che ho messo in loop è "Feel Like Going Home".
(Nello Baffetti, 04.05.2007)

domenica 29 aprile 2007

DAVID CROSBY

If I Could Only Remember My Name (1971, Atlantic)
Da ragazzino vivevo con il sogno dell’America, la West Coast, le comunità hippyes, l’amore libero, il no alla guerra in Vietnam, la speranza di cambiare il mondo.
C’è un disco che più di ogni altro mi porta a quegli anni, un disco stupendo, sognatore, psichedelico e lisergico, acido ma nello stesso tempo leggero come una farfalla pronta a volare via.
David Crosby al culmine dell’ispirazione, come purtroppo non sarà più, l’essenza di come la musica possa avere il potere di farti viaggiare con la mente, quasi fosse una sostanza stupefacente.
Un rifugio in cui entrare ogni volta che ne hai il bisogno, un luogo in cui andare quando hai voglia di scoprire.Una voce stupenda, capace di cantare indifferentemente il country, il soul ed il blues che si fonde perfettamente con le chitarre, quasi fosse anch’essa uno strumento e che compone bellissime ballate capaci a distanza di tanti anni di farmi venire ancora la pelle d’oca, perché poche cose come la musica ti sanno emozionare.
E l’ingenuità di quegli anni, i sogni e le speranze, riaffiorano in un brivido di malinconia.
Perché sicuramente non avrei immaginato che saremmo finiti così:una società finta dove l’unico valore è il denaro, dove ricchi figli di papà e poveri figli di operai si ritrovano nei cessi dei locali a farsi di coca per sentirsi tutti vivi, e dove le ragazze, dopo una settimana passata a guardare reality e la De Filippi, si buttano, tappate come troie, alla ricerca di un’apparizione, di una chance, per non finire in un call-center o alla cassa di un supermercato.
Speriamo che almeno non abbiano perso la voglia di sognare un mondo migliore.
(Lillo, 29.04.2007)

sabato 21 aprile 2007

NADA

Luna In Piena (2007)
Non deve essere facile mettere a nudo le proprie ferite, ancora sanguinanti, gli insuccessi, le disillusioni e le proprie imperfezioni, ma Nada lo fa con fierezza, come chi nonostante tutto crede ancora nell’amore, con cicatrici nel cuore e ancora tante storie da raccontare.
I testi sono molto belli, al limite della poesia, ed il canto è pura recitazione, a volte ricorda il miglior Giovanni Lindo Ferretti (quello vero, non il Papa-boy di adesso…che tristezza….).
Ma è davvero così importante cercare di mettersi a nudo, di scrivere testi che entrano nel personale e comunque non siano i soliti ritornelli, in questa epoca di musica consumata velocemente su I-pod vari e dopo un mese dimenticata?
E a cosa serve la musica, abbiamo ancora il tempo e la voglia di “ascoltare” un album, sviscerarlo in ogni sua parte, imparare ad amarlo invece che ascoltare solo qualche pezzo,magari i più orecchiabili e dopo pochi giorni metterlo da parte?
Se la risposta è si, imparate ad “ascoltare” questo disco.
Vi colpirà dritto al cuore.
(Lillo Lydon, 21.04.2007)

venerdì 20 aprile 2007

RY COODER

Paris, Texas (1984, Original Soundtrack - Warner)
Una faccia stralunata, consumata. La pelle è un'arancia dura come un sasso, brunita e raggrinzita dall'arroganza di un sole carogna guardato sorgere troppe volte senza cautele.
In gola un bolo di mastice, tignoso quanto una nuvola di zanzare afose. Dell'aria è bruciata anche l'idea.Realtà al collasso, sui bordi è vapore di benzina. Fumo di bitume fuso nero.
Pensieri asfissiati, convulsioni, visioni febbricitanti; associazioni mentali ipercinetiche e contraddittorie, oleose nel loro fiondarsi cieco le une contro le altre ma senza cozzare. Liquefatti ogni schema, sistematizzazione, ordine razionale, ogni abbozzo di sequenzialità coerente delle azioni, guidate ora da un sobbollire nervoso casuale.
Lacrime partorite asciutte. Labbra spaccate che balbettano riarse impastandolo il nome di una donna. Di un bambino. E binari arroventati, polvere, pietre di un biancore accecante: questo l'alveo per il caos interiore di uno spettro dalle sembianze umane che stentatamente si trascina, barcolla, stritolato da improvvisi tizzoni emotivi e sentimenti in anossia.
Il collo di bottiglia di una chitarra slide prosciuga ogni suono superfluo, sottrae materia e di quel che resta "tira" ogni nota fino a spezzarne le ossa, mettendola forzosamente a fuoco, spremendone tutto il potenziale di suggestione: la risultante è questo ambiente torrido e rarefatto, in cui i picchi e le seguenti cadute di note dal midollo succhiato peggio di un ossobuco danno il senso di una ricerca allo stremo ma non arresa, di un'ossessione non placata: il lamento di un cuore senza pace, crivellato dal suo amore perduto.
Tregua: la toccante "Canciòn mixteca", malinconia d'amore, saudade di ogni Sud del mondo, splendente di tradizioni antiche e saggezza popolare.
Il resto sono cactus e cespugli che rotolano lungo anime desertificate fino alla tensione del dialogo che chiude il disco.
E la gola, per tanta esposta fragilità della condizione umana.
(LaRoma)

giovedì 19 aprile 2007

NEIL YOUNG

On The Beach (1973, Polydor)
Probabilmente l'album migliore di Neil Young, e certamente il più comunicativo.
L'inferno di "Times Fades Away" ed il limbo onirico di "Tonight's the Night" (pubblicato nel 1975, ma inciso nel 1972) scivolano dolcemente verso la vita.
E' l'album che rivela la luce in lontananza; il respiro ancora debole, ma presente, di chi riprende a vivere; il primo battito del cuore dopo la morte apparente.
E' pur sempre un album di dolore, di tristezza e malinconia, ma questa volta concede spazio alla speranza: la trilogia del dolore si chiude qui. Le vicissitudini ed i drammi personali stanno per trasformarsi in pura esperienza, lasciando sfilare dal corpo, la pelle della disperazione, quasi in una lenta muta, non voluta, non cercata, non naturale, ma necessaria.
Sarà sempre una questione di gusti, ma alcuni dei brani migliori del repertorio di Neil Young sono contenuti in quest'opera, e lo è sicuramente la sua canzone più bella: Ambulance Blues.
La capacità di rendere un'atmosfera carica di sensazioni è decisamente una delle sue caratteristiche più marcate; parlo di musicalità pura e semplice.
L'accordatura si apre e si abbassa di un tono ed il suono degli arpeggi arriva al cuore, tradotto in vibrazioni sonore non comuni all'orecchio, per la corposità dei bassi e per il colore che assumono.
Le note si avvertono in maniera più lenta e più piena, con una frequenza che le arrotonda fino a renderle ancora più toccanti.
L'introduzione di Ambulance Blues è semplicemente un capolavoro disegnato dalla chitarra acustica. I suoni, contrappunti magici, dell'armonica e del violino si fondono e si mescolano in un'espressione unica di tristezza, un lamento da cui trarre piacere, non dolore.
Se in "Tonight the Night" i musicisti avevano suonato al buio, per accentuare il clima cupo e disperato del disco, ora sono le cromature delle note ad infondere l'emozione all'ascolto.
Motion Picture è un canto d'amore e di ricordo; la slide-guitar ripetitiva e malinconica esalta l'atmosfera.
L'assolo di Revolution Blues è la cosa più spigolosa e geniale che si sia mai ascoltata in un blues.
Le vibrazioni del wurlitzer piano di See the Sky About the Rain non hanno uguali nella storia della musica rock.
"On the Beach" è un disco di quelli che ti cambia, che ti arricchisce di sensibilità, che ti fa crescere e che ti fa pensare...
Ti fa pensare alla tua vita, alle tue speranze, ai tuoi ricordi, alle tue cose, ai tuoi amici: chi c'è e chi non c'è più.
E lo ascolti, scoprendoti poi con gli occhi chiusi, il cuore tra le mani, e l'anima ad un metro da te... che ti guarda e che si fa guardare.
(Nello Baffetti, 19/4/2007)

lunedì 16 aprile 2007

NICK DRAKE

Pink Moon (1972, Island Records Ltd)
Eccomi ancora una volta, dopo una dura giornata di lavoro, seduto sul divano a rilassarmi.
Mi alzo e fra i CD disposti alla rinfusa ne estraggo uno qualsiasi, lo posiziono sul lettore e subito i suoni mi giungono repentini, percorrono i padiglioni auricolari e le vibrazioni del timpano si trasformano in messaggi dielettrici che giungono al nervo, lo percorrono e arrivano a parte del cervello.
Entra biologia molecolare e ne escono emozioni: dolore? malinconia? paura? depressione? o semplicemente un inno alla solitudine.
L’album che genera tutto ciò è Pink Moon di Nick Drake cantastorie birmano di rara capacità espressiva; è sufficiente riascoltare il brano Know
“Know that I love you
Know I don’t care
Know that I see you
Know I’m not there.”
per immergersi in un mondo di desolazione, sgomento, vuoto interiore.
Tutti i suoi pezzi sono colmi di sensibilità e vulnerabilità con musiche a cavallo fra folk e jazz e solo la sua morte prematura ci ha privato di altri brani di sicuro spessore.
Appunti, ricordi, annotazioni di MINEZ. (16/4/2007)

venerdì 13 aprile 2007

FEIST

The Reminder (2007)
Ci sono momenti che hai voglia di leggerezza, voglia di malinconia, di fluttuare nei ricordi per rivivere le cose belle, emozioni, storie, gioie; voglia di stare solo, isolarti dal mondo esterno per entrare in un altro mondo tutto tuo.
Ma non avendo mai allacciato rapporti con sostanze lisergiche ed affini, hai bisogno di uno stimolante e quale migliore se non la musica? Ed allora ecco che dischi come questo sono la migliore medicina, un passaggio perfetto dal reale al fantastico o dal presente al passato a seconda delle voglie del momento.
Ed arrivato ad un’età in cui i ricordi sono molti di più che non i sogni questa è una musica necessaria, terapia perfetta contro la folle corsa senza una meta della vita odierna.
E questa voce, ora dolcissima, ora sofferente, ora malinconica, ti avvolge piano piano, si impossessa di te ogni volta un po’ di più, sino a condurti là dove da solo non avresti mai il coraggio di andare:
nel profondo del tuo cuore.
(Lillo Lydon– 12.04.2007)

martedì 10 aprile 2007

LIVING COLOUR

Stain (1993, Sony/Epic)
Non per tutti!
Un susseguirsi di assoli e riff chitarristici da capogiro. Hendrix ri-letto ed eseguito in melodie circolari tra metal e trash.
Vernon Reid la sa lunga...e anche se la tecnica è tutta dalla sua parte, il protagonismo della chitarra non disturba come ci si aspetterebbe.
L'energia sgorga naturale ed impetuosa dai suoni e dai ritmi di questo disco.
Ti vien da pensare che con questi suoni, con questa tecnica, con questa ritmica, l'unica musica possibile sia proprio questa...
E forse lo pensi; e pensi che senza la tecnica, questo genere di cose non te le puoi aspettare da tutti...
E quando lo pensi, ti resta soltanto una cosa da fare: ascoltare.
Esaltante.
(Nello Baffetti, 10.04.2007)

BILL FRISELL

Works (2000)
Sono naufragato.
Troppa inutile terraferma che proietta miraggi, troppa riduzione di complessità, troppe semplificazioni, troppi compromessi accettati (necessari o creduti tali) perdendomi pian piano di vista, in affannosa ricerca di pace con me stesso.
Mi sento una foto sfocata, energie nervose al lumicino.
Musica rifugio, dentro così tanto di me da cercare proprio lì segni di un’identità alla deriva.
Cuffie, luce da penombra e “Works” di Bill Frisell.
Mi aveva fatto crescere e accompagnato, tirandosi poi timidamente in disparte come un genitore che assolto il proprio compito ti lascia libero di andare a cercarti da solo la tua strada.
Mi fa ritrovare di colpo una cosa precisa, nitida: rivedo i miei disegni, che tanta parte di me si portavano dentro, tutte le mie ossessioni, le solitudini, la mia introversa ma solare voglia di vivere “insieme”, la scintilla al centro del mio corpo che lo faceva vibrare di vita.
C’è il tavolo scarno, la stanza ormai buia, notte fonda e sempre più freddo, il morso del sonno vano contro la mia ferrea forza di volontà: ho musica, foglio e matita e urgenza, devo spiegarmi, gridare garbatamente al mondo che esisto e sono fatto così.
E’ tornare a casa.
Il paese è cambiato, la gente è diversa ma c’è ancora la mia casa.
Questo è per me (l’eclettico e sterminato, ma non interessa ora) Bill Frisell.
Qui - non soltanto ma specialmente qui - la sua musica è tutto quel che vorrei dire nel modo in cui vorrei saperlo dire: io, se fossi, se potessi essere suono.
Molto più somigliante di qualsiasi foto. Un ritratto teso, inquieto, obliquo, a tratti poesia lancinante eppure insieme dolcissimo e commovente.
Maledettamente fedele.
Indietro non si torna, no; ma ora ricordo chi sono stato, dove sono passato.
Ogni singola nota, suono, è una tessera del mosaico che io sono. Mi appartiene e definisce.
Black is the color of my true love’s hair”, come guardare la Sagrada Familia, si può ascoltare per giorni scoprendo nuovi particolari ogni volta.
The beach”, la fiducia, l’abbandono totale all’altro da sè.
Throughout”… uno scoglio al tramonto, il mare tranquillo, le palpebre chiuse assaporano il vento, i cinque minuti di pace salmastra che stavo cercando.
Un gabbiano che vola leggero, traiettorie di poche pretese, brevi, ripetute.
E’ contento così.
Vola.
(LaRoma, 09.04.2007)

CHARLOTTE GAINSBOURG

5 : 55 (2006)
Brigitte Bardot, Isabelle Adjany, Sophie Marceau, Jeanne Moreau, Beatrice Dalle, Jane Birkin: chi non ha mai sognato e desiderato una ragazza francese, dal fascino capriccioso e intrigante, decisamente francese?
Charlotte Gainsbourg è la meno esagerata della compagnia, ma vederla nel video di “the songs that we sing“ tratto da un bellissimo ed inaspettato album, alle 4 del mattino di una notte insonne, mi immobilizza letteralmente, meravigliato: magica unione tra la dolcezza del brano - forse il più sensuale di uno splendido disco - ed il fascino malinconico della sua interprete.
Non mi ricorderò certo in futuro i motivi della totale assenza di sonno di quella notte, ma del pianoforte degli Air e della voce di Charlotte, sì.
Potenza della musica.
(Mark Shenker– 09.04.2007)

lunedì 9 aprile 2007

GUN CLUB

Fire Of Love (1981, Ruby Record)
Un canto che esce dall’anima, un canto maledetto, l’America del sud, il Kkk, il voodoo, bourbon e chitarra.
Qui non è come “Il colore viola”, qui finirà male, ma in questo disco c’è tutto il blues suonato e filtrato dall’esperienza punk e new wave.
E’ il periodo degli X, Wall of Voodoo, Cramps, si torna alle radici della musica americana per rileggerla in chiave moderna senza per questo dimenticare il passato.Una highway senza fine, una bottiglia di Jack Daniels, un motel lungo la strada, una puttana triste nel letto, mal di testa, male al cuore, male all’anima; solo la musica può lenire le ferite. E allora salgo sul black train e vado all’inferno.Come dicono i grandi musicisti neri :”il blues si regge su 3 accordi, chiunque li può suonare, ma se non ci metti l’anima, il cuore, la passione, non è niente. Quello fa la differenza.”.
Ogni volta che ascolto questo disco, avverto un senso di disagio, quasi imbarazzo per essere seduto tranquillo sulla mia poltrona ad ascoltare chi ha fatto della vera musica una ragione di vita e mi urla in faccia la sua disperazione.
Jeffrey Lee Pierce amava il blues più della sua stessa vita, finita presto per i troppi abusi.
Jeffrey Lee Pierce era bianco.
Jeffrey Lee Pierce suonava musica che veniva dall’anima.
(Lillo Lydon, 9.4.2007)

venerdì 6 aprile 2007

MARK LANEGAN BAND

Bubblegum (2004)
Voce & semplicità
Voce.
E' unica, fa venire i brividi ed è una carezza che arriva al viso.
E' il malinconico tepore di Leonard Cohen.
Semplicità.
Quella delle cose belle.
E' la scorrevole musicalità di Neil Young.
Magia & melodia
Magia.
I suoni fanno le atmosfere, e lo fanno al meglio.
E' la magia sobria dei suoni di Tom Waits.
Melodia.
Ballate e piccole perle di genialità.
Come le melodie tenebrose di Nick Cave.
A volte la sintesi è capolavoro
.
Per provare emozioni sincere.
Da ascoltare al buio.
(Nello Baffetti, 6/3/2007)

SMITHEREENS

Especially For You (1986, Enigma)
Il suono degli anni '60.
Album d'esordio per la pop band di Pat DiNizio che sforna una successione di ballate pop semplici e orecchiabili.
Non ho dimenticato una canzone, un riff... tutto è ancora lucido nei pensieri a distanza di 20 anni.
In auto, sotto la doccia, mangiando, in relax... un album che ha accompagnato per diversi mesi, i gesti quotidiani delle mie giornate.
Mette allegria, infonde quella carica leggera, ma allo stesso tempo sicura ed efficace, che esplode nella voglia di fare.
Gran bel disco!
Tanti riferimenti, tante citazioni, quasi a volerci raccontare che il pop ha un suo spessore, ben oltre la leggerezza delle "canzonette", che esistono buone composizioni e buone esecuzioni: e così si strizza l'occhio a Rolling Stones, Roy Orbison, Beatles.Pop in New York.
Gran bel disco! Decisamente.
(Nello Baffetti, 5/4/2007)

mercoledì 4 aprile 2007

ALICE IN CHAINS

Sap (1992, Columbia)
…. erano forse la band più elettricamente Hard Rock della cosiddetta ondata Grunge-Alternative di Seattle …. quella dalle origini più classicamente Hard & Heavy ed in cui le “contaminazioni” in stile Detroit o Post-Punk erano sicuramente minime, ridotte sostanzialmente all’utilizzo del basso cavernoso ed alla batteria essenziale …. erano già una band interessante con il loro esordio “Facelift” ….. ma con questo mini-lp riuscirono a entrare direttamente nel mio mondo musicale, diventando la colonna sonora di tanti miei momenti … tristi e sofferti come le vite di chi le suonava ….. sì …. perché paradossalmente gli Alice In Chains hanno sempre trovato (anche poi col seguente Jar Of Files) la loro più pura espressione artistica in ballate elettroacustiche in cui spiccava da un lato capacità costruttiva delle chitarre di Jerry Cantrell e – ovviamente – la voce malata, veramente intossicata di Lyne Staley nel suo cantare la sua progressiva autodistruzione nelle droghe, un’ode alla morte che troverà la sua apoteosi nel seguente “Dirt” …. ed in questo contesto la sensibilità musicale, la sinuosità, il carattere avvolgente di questi pezzi è e rimane tuttora ancora mirabile …… ed ancora di più la tristezza, malinconia coinvolgente che queste canzoni ti sanno dare e che rimandano nella mia mente inevitabilmente ancora a quelle notti, in giro in macchina per le strade dell’Oltrepò, a vagare con una sigaretta ed una birra …. da solo o con LaRoma a sfogare le nostre reciproche “depressioni” ….. a celebrare le nostre lacrime od a cercare “indirettamente” nella sintonica risonanza tra musica ed anima, quell’oblio cantato … e poi trovato proprio dal cantante.….. ed ancora oggi a 15 anni di distanza, quando metto giù il muso ed ho il mio periodo misantropico, questo mini è ancora così sincero, ad accogliere il mio animo e le sue turbolenze …… e l’arpeggio di chitarra di “Got Me Wrong” mi accarezza ancora una volta …..
ROCK ON
(The Lawyer – 04.04.2007)

martedì 3 aprile 2007

STOOGES

Fun House (1970, Elektra - Rhino)
Parlando di Made In Japan dei Deep Purple, ho parlato di una visione progressiva dell’Hard Rock, completamente avulsa dal concetto di Progressive Rock … beh ho sempre ritenuto che anche questo disco si muovesse su questa linea sia pure sotto un’ulteriore angolo diverso …… Fun House è un folle ma geniale viaggio elettrico allucinato lungo i territori della dilatazione tra Hard Rock, Rock-Blues e Free Jazz … così come il primo mitico album degli Stooges era un concentrato esplosivo, malatamente innovativo del Rock Acido - sotto la produzione di un geniale compositore avant-garde dalla formazione classica quale John Cale - che “celebrava” la fine degli anni ’60 …. Fun House assorbe e mixa la tensione elettrica e violenta della carica musicale di quei quattro teppisti acidamente disperati di Detroit lungo un sentiero sapientemente definito da un’altra e diversa “guida”, un personaggio chiave del Garage-Rock anni ’60, Don Gallucci, il tastierista dei Kingsmen … quelli di Louie Louie. Il risultato è una scarica violenta e selvaggia che grida la fine dei ‘60’s e annuncia gli ancora più duri, cinici e disperati anni ’70 (in questo senso essenziale è il vedere nei due album due pezzi simbolicamente intitolato 1969 e 1970) con la fine definitiva dell’Hippie Dream (già preannunciata nell’album precedente). Se “The Stooges” aveva con sé forse più “hits”, Fun House è più completo, più solido compositivamente, è un disco fatto da 7 pezzi di musica totale….. a 360° ed è soprattutto un album che non invecchia assolutamente, che si rinnova di ascolto in ascolto in una dilatazione di sensazioni che nella mia mente malata hanno avuto sempre il colore rosso fuoco della cover, il fuoco ardente della forza e del dinamismo delle composizioni, della bruciante Fender Stratocaster di Ron Asheton (the One and Only Kerosene Guitarist!!!), della pulsante sintonia basso-batteria di Dave Alexander & Scott Asheton ….. sensazioni che ancora oggi mi fanno venire i brividi alla schiena quando penso ed ascolto una simile sequenza memorabile di pezzi, tra l’altro posti con sapiente maestria da Gallucci in un ordine quasi perfetto ….Down In The Street apre, dà il ritmo, lo tira su … esplode, poi sembra rilassarsi, ma non fa altro che aprire lo spazio per il furore (ancora più) Hard Garage-Rock di Loose un pezzo veramente libero, scatenante che non si può non suonare quando si è in macchina ad alta velocità, teso, con l’incrociarsi di chitarre dure, taglienti ed acidissime …. per poi passare alla ancora più tesa e nervosa T.V. Eye dal riff circolare ed ipnotico, che nel vibrare del riverbero della chitarra apre alla magia perversa e disperata di Dirt, forse uno dei migliori Tre Blues Bianchi di sempre, così sinuoso nella sua postvelvetiana atmosfera, fatta di catene, collari sadomaso e passioni d’amore tanto brevi quanto intense, nel suo ritmo totalmente inusuale, ma ipnotico e con uno stacco centrale di chitarra da parte di Ron Asheton assolutamente da sbavare ….. una chitarra che incendia l’aria intorno a sé in note di un’intensità perversa assolutamente da brivido …. ed ancora una volta il finale che abbassa il tono, quasi come un corpo che si esaurisce e rilassa dopo il massimo momento di concentrazione e di piacere o dolore ….. un dolore che sembra quasi emergere dai solchi del disco allorché si apre e si lancia come una cavalcata impossibile la fantastica 1970 in cui forse la band dà il suo meglio collettivo … celebrando quasi con tragica lungimiranza la fine del sogno e l’inizio dell’incubo con un Hard Rock tribale, primitivo ed ipnotico in cui svetta Iggy ed i suoi urli e che poi si apre “progressivamente” attraverso lo stupendo sax Free Jazz di Steve Mackay …. sax protagonista poi della stupenda jam Hard-Psych-Free-Jazzy di Fun House in cui sentiamo la band quasi fosse di fronte a noi …. in una festa a suonare continuamente lungo la notte, fino allo sfinimento in quasi un disperato tentativo di cogliere e celebrare la vita …. vita che sembra quasi volersi negare in quell’urlo-pezzo assolutamente folle e disturbante, orgasmicamente caotico, ma così evocativamente simbolico che è L.A. Blues. …… ed in mezzo … al centro di questo calderone pluridimensionalmusicale … lui il disperato signore del caos dal cuore pieno di napalm …..Iggy …. IGGY POP che guida, da il tiro ad una band che già di tiro ne aveva tantissimo, che domina con i suoi urli con il suo lasciar vibrare dentro ogni suo muscolo l’elettricità della musica …. che canta la sua perdizione, il suo essere “Dirt” sporco, ma anche il suo essere “Loose” scatenato, libero di volare in alto dentro la sua Casa dei Divertimenti (Fun House).…. ed in basso ancora una volta Io che ancora una volta schitarro ed agito la testa ed apro la bocca in gesto di grido liberatorio, totalmente posseduto dalle note e dalla forza di questo disco, dalle sensazioni …. dal piede che continua a muoversi, dalle pulsazioni e dalle emozioni. Per qualche minuto anche io riesco a sentirmi veramente libero ……..
ROCK ON
(The Lawyer – 03.04.2007)

NOTA: nell’edizione Remaster di due anni fa, se sul primo cd vi sono i sette pezzi originali, sul secondo, abbiamo 14 brucianti outtakes delle sessions che la band tenne con lo stesso Don Gallucci (mitico organista dei Kingsmen) e Bryon Ross-Myring negli studi Elektra Sounds. Due Inediti: Lost In The Future & Slide The Blues.

venerdì 30 marzo 2007

AA.VV.

Black convict's songs - Worksongs and blues
Anni fa uscì un triplo vinile raccolto in uno splendido cofanetto , corredato da tre libretti con testi in inglese e tradotti in italiano , ricchissimi di note , che racchiudeva una serie di registrazioni effettuate nelle carceri nere americane. Il cofanetto si chiamava "Black convict's songs - Worksongs and blues" e conteneva le registrazioni fatte da Alan Lomax in Mississipi nel 1947 , da Harry Oster in Lousiana nel 1959 e da Bruce Jackson in Texas nel 1965.Non ci sono bluesman "di professione" ma solo carcerati neri che subivano soprusi di ogni tipo a causa del colore della pelle e che in queste preziosissime testimonianze cantavano attraverso il blues e il gospel la loro sofferenza. Sono brani di un'intensità estrema che vanno ben oltre quello che si può provare all'ascolto di Robert Johnson , di Leadbelly o dei primi John Lee Hooker , Muddy Waters o Brownie Mc Ghee. Questo è IL BLUES dei carcerati registrato (nel caso di Alan Lomax , uno dei più grandi ricercatori di musica tradizionale americana , con uno dei primi registratori portatili in assoluto) in carcere da persone anonime. Il cofanetto è ormai introvabile ma sul sito www.rounderstore.com si trovano i CD separati. Questo è uno dei punti cardinali del blues e della musica moderna.Molto brani sono scanditi dalla sola voce accompagnata dal battito di mani o del piccone o di un barattolo.
EXTREME !

(Tony Face)

HUSKER DU

Candy Apple Gray (1986, Warner Bros.)
.... le mie radici musicali sono nel cosiddetto Rock Classico …. quello databile tra il 1966 ed il 1973 e quando la musica è entrata “seriamente” nella mia vita il Punk era in qualche modo la parola che identificava quello che non mi piaceva.Un’estetica che ritenevo troppo modaiola e costruita (in fondo pure la buon’anima del caro Marco Cagnoni, da sempre fervente discotecaro che si vestiva alle medie come John Travolta nella Febbre del Sabato Sera, non appena scoppiò il fenomeno Sex Pistols entrò in aula a scuola con una spilla da balia in puro Punk Style) e musicalmente che mi disturbava (…. ma questo era anche uno degli scopi dello stile), forse perché le mie esperienze erano stati gruppi punk altamente estremi come i GERMS di Derby Crash od i CRASS, ….. preferivo l’estetica e l’attitudine più naturale, e spontanea e dotata di un approccio anti-fashion del Rock anni ’70 e dell’Heavy Metal inglese (salvo solo scoprire poi anni dopo che era un’estetica quest’ultima che doveva anche al Punk) al nichilismo di tanta musica Punk (il nichilismo di Iggy Pop però fu un’altra storia per me).…. ecco quindi che per me Punk era il nemico …. era un’altra riva di fare e vedere la musica .... però ….. c’era una volta un’epoca stupenda per la radio italiana, la metà degli anni ’80 in cui c’era Rai Stereo Uno ed il settore musicale era diretta da Pier Luigi Tabasso. La sua idea di RSU era di renderla all’avanguardia musicale suonando e diffondendo la musica di qualità (quella vera), quindi Rock in tutte le sue salse, Funk di qualità (Prince, Afrika Bambataa e non Michael Jackson), Jazz, Folk etc …. ed ecco quindi due trasmissioni che ebbero il merito di scolpire la cultura e l’immaginario musicale di tanti di noi, tra cui il sottoscritto che aveva passato i primi 5 anni di passione Rock, solamente a dipendere dalle storiche Radio Peter Flowers e Radio Popolare: MASTER, tutti i primi pomeriggi e STEREODROME alla sera.Eccomi quindi che avevo preso l’abitudine di - prima di rimettermi a studiare - mettermi a letto ed ascoltare questa trasmissione con conduttori che mi facevano morire … Rupert col suo mitico saluto ….”Iggy Pop a Tutti!!!” per esempio …. e mi ricordo che ad un certo punto, in orario di punta per la musica commerciale (h. 14.00) Master iniziò a far ruotare un pezzo di una band di cui avevo letto lodi su Rockerilla, una band che pur attirandomi beh …. per me aveva un ostacolo … erano Punk .. o meglio Post-Punk.. Erano gli Husker Du …. e Master ruotava a grande intensità due pezzi provenienti dal loro disco di allora: “Don't Want To Know If You're Lonely” e “Sorry Somehow” ….. qualcosa mi si aprì ….. non era Punk come lo immaginavo fino ad allora – anche se si sentivano le influenze – e suonavano bene …. erano precisi ed efficaci …. e le chitarre erano personali …. rollavano ed avevano dinamica …. certo, non c’erano i miei tanto amati assoli di chitarra … ma …. non era stranamente una gran perdita …. e queste melodia e queste chitarre. …. iniziarono a girarmi continuamente per la testa e riuscirono senza che me ne accorgessi a raggiungere …. dovevo prendere questo disco.Qualche settimana dopo, dopo avere passato l’esame, mi premiai e comprai il 33 …e ……. bang!!Crystal scoppiò nelle mie orecchie ….e finalmente il Punk entrò nella mia vita musicale …… non ha mai raggiunto un percentuale preponderante, ma ne sono contento ….. il tiro di Crystal mi lasciò immediatamente interdetto … perché … aveva un suo senso musicale, una sua forza …. quel riff basato su un solo accordo … tanto cattivo quanto acido ……. con quel ritornello urgente e poi … il crescendo nevrotico e schizzato finale mi faceva quasi paura …… ma poi … Don't Want To Know If You're Lonely mi rassicurava e mi ridava dinamismo …. questo disco aveva il tiro .... per me …..Candy Apple Grey per molti critici è un disco che risente molto del cambio di label dalla storica SST alla Warner Bros e secondo me ingiustamente viene etichettato come il segno di una svolta pop della band …. personalmente non ho mai capito questo abuso del termine pop (come di quello punk) che la critica fa continuamente da trent’anni ….. Candy Apple Grey non è un disco pop .... è un disco di grande Rock diretto .... figlio proprio di quel capolavoro che fu ZEN ARCADE (che conobbi molto dopo) e del suo essere vero manifesto del Post-Punk americano ….. e come ZA portatore di tante piccole gemme che sono ancora oggi una lezione di come si fa, si vive e si suona il Rock, anche quando ci sono set acustici affascinanti e conditi dalla stupenda voce di Bob Mould come "Hardly Getting Over It" o dal piano di "No Promise Have I Made" …. forse non fa gridare all’assoluto capolavoro come fu ZA, ma per me …. è speciale …. è il ricordo di un’epoca d’oro della mia crescita culturale …..di un’epoca che mi ha permesso di allargare i miei confini musicali …..La cartina di tornasole, quando iniziai a suonare con Calone e Calino & Babe, beh … Sorry Somehow fu uno dei primi pezzi suonati … .ed ero contento, veniva proprio bene … era bello suonarla ……anche quando vi inserivo un’assolo ….

(The Lawyer)

giovedì 29 marzo 2007

DEEP PURPLE

Made in Japan (1972, EMI - Purple Records)
……….. Amo i dischi Live ….. meglio …… li ho amati in quanto per molto tempo oggetto di una forsennata ricerca di qualcosa o qualcuno che nella Storia del Rock potesse essere capace di fare quello che c’è dentro e che si può udire dentro questo disco …… ed ovviamente che potesse essere capace di donare le emozioni che da oltre un quarto di secolo questo disco sa e continua a donarmi …. entusiasmo … voglia di gridare, di suonare una chitarra e di aprire i tormenti, i mali i dolori, i dubbi, le paure e i desideri più intimi della tua anima …. di alzare le braccia al cielo … voglia di spremersi lungo un’autostrada alla ricerca di qualcosa, di qualcuno di un’oasi, del cucuzzolo di una montagna, di un banco di un bar che ti sappia donare il calore che la tua stessa camera da letto ti ha fin da piccolo donato …. la ricerca di Avalon … forse ….. emozioni che per qualcuno (anche di questo sito) possono essere solo adolescenziali, ma che personalmente ritengo preziosissime sempre e … sempre sintomo di una malattia di cui sono mortalmente infettato …. una sindrome terribile ed incurabile che mi accompagnerà fino alla mia morte, una sindrome che è anche una benedizione …. quella del Rock ‘n Roll Un malattia di cui Made In Japan è stata la causa prima … il secondo disco rock che abbia mai sentito a dire il vero … ma che per me è e sarà sempre il primo … semplicemente il nucleo duro (Hard …) del mio cuore e della mia anima musicale …… … ma in questa valutazione sono in buona compagnia, visto che per coloro che “sanno” di Rock, che sanno capire e distinguere e non omologare impropriamente (questo NON E’ HEAVY METAL!!) questo disco è – semplicemente -- il più grande album dal vivo della Storia del Rock, un esempio insuperato, un modello cui poi tutti hanno tentato di riferirsi …… non c’è Live At Leeds (The Who), non c’è The Song Remains The Same (Led Zeppelin) non c’è Metallic K.O. (The Stooges), non c’è Kick Out The Jams (MC5) che tengano di fronte a quello che fecero in tre serate d’estate del 1972 (ma anche prima ad onor del vero) questi cinque scatenati rockers inglesi, al culmine della loro creatività e del loro entusiasmo -- con già un pizzico di manierismo e l’allargamento inarrestabile di sottili crepe interelazionali destinate a spuntare dietro l’angolo un mese e mezzo dopo – che si spremono in un tour de force musicale fatto di lacrime, sudore, sangue, feeling, intensità, passione, contaminazioni musicali, tecnica musicale stellare, violenza, energia e classe.
Un Tour De Force assolutamente unico e totale.
Badate bene …. i termini di paragone che ho fatto sopra sono tra i più nobili (e da me ultra amati) dell’intera Storia del Rock, e condividono e vivono il mio cuore … ma Made In Japan è diverso …. è speciale …. è quel classico disco che senti subito come abbia quel qualcosa in più …. la marcia in più … c’ha il tiro … e c’è quel particolare spirito di una band che in qualche modo si sta bruciando il nucleo duro delle proprie riserve di energia in una sorta di atto di devozione alla loro creatività, alla loro energia ed alla loro magica formula …. così come nel loro altro capolavoro “In Rock” (1969-1970) la band si giocò il tutto per tutto per non morire in un’esplosione sonora assolutamente inimicata, così in questo Live i Deep Purple celebrano l’apoteosi di quello che sapevano fare, fottuto duro, senza compromessi, Hard Rock, mai staticamente monolitico ma aperto alla loro creatività e gusto e feeling che variava di notte in notte.
Un approccio progressivo senza assolutamente essere Progressive né prendere i tipici difetti del Progressive Rock, anche quando dilatavano i pezzi come Space Truckin’ in lunghissime jam psichedelico-rumoriste, che avrebbero fatto l’invidia della Experience o dei Doors o dei Quicksilver Messenger Service … e soprattutto il reinventare in maniera nuova i pezzi dai dischi in studio che assumono in questo contesto una dimensione totalmente nuova …..sono pezzi nuovi … guadagnano in tutto e per tutto e diventano ad uno sguardo distaccato quasi la “summa teologica” di tutto quanto di buono vi è stato nel Grande Rock Classico pre-Tempesta Punk.
Ed eccoMi quindi ancora qua adesso a quasi 35 anni da quei concerti ed a 26 anni da quel Sabato Pomeriggio in cui ascoltai per la prima volta questo doppio … a ritrovarmi on gli stessi brividi nella pelle ….. la stessa tensione quando ancora una volta penso ed ascolto Highway Star (l’opener perfetta di un concerto Rock per Me) …. i musicisti che trasformano le risonanze per accordarsi nell’inizio del pezzo ….. il ritmo che accelera …… la batteria che inizia a pestare veloce e dinamicissima, poi la voce forte intensa onestamente pura di Ian Gillan … “This song’s called Highway Star ….. yeaaahhhhssss!!!” .. .e poi l’elettricità pura della Fender Stratocaster di Ritchie Blackmore che taglia l’aria e fa scoppiare il pezzo …. e da lì ancora oggi è un turbinio di emozioni ….. gli assoli velocissimi, intensi, pieni di anima e di follia acidamente post-hendrixiana … con una spruzzata di classicismo bachiano ….. l’intensità di Child In Time con le vette che la voce di Gillan riesce a raggiungere e poi l’assolo di chitarra così intenso, virtuosistico, entusiasmante, tirato dalle punte jazzate “ ‘a la Mahavishnu” ma mai fine a se stesso, Smoke On The Water … il riff per eccellenza del Rock (più di Satisfaction o di I Wanna Be Your Dog o di Jumpin’ Jack Flash o Substitute) …. così sputtanato nel suo essere continuamente suonato milioni di volte al giorno …. ma così esaltante nella sua elettricità in quella magica serata di Osaka ….. la tribalità ritmica dietro i sapori post-hendrixiani di The Mule ….. la coinvolgente ritmica di Strange Kind Of Woman con il suo swing da jam session e l’immortale duello voce chitarra ….. per poi proseguire con la jazzatissima (con citazione brevissima ma totale di Duke Ellington) Lazy in cui è il rincorrersi tra organo e chitarra che la fa da protagonista ……la già citata Space Truckin’ ……. e (grazie ai remasters recenti) la cavalcata allucinata di Black Night …. una Speed King violentissima e quasi proto-punk nella sua irruenza ed urgenza …. per finire con una sconvolgente cover di Lucille di Little Richard …. si perché mai questa band ha trasceso la sua natura di essere una fucking Rock ‘n Roll band … ed il Rock ‘n Roll è soprattutto emozione …. e questa esce da tutte le note che suonarono 35 anni fa ….. e questa mi sprizza dai pori ogni volta che l’ascolto …. dovrei sentirmi vecchio …. dovrei sentirmi stanco …. eppure con Made In Japan non è così ….. lo sento e come i brividi che dà la pioggia che batte sul tuo corpo Mi sento di nuovo di avere 35, 30 … 20 anni ……… mi sento vivo e rinato!!…… grazie Ritchie Blackmore, grazie Ian Gillan, grazie Roger Glover, grazie Jon Lord, grazie Ian Paice …. grazie di avermi acceso l’anima …. e grazie a LaRoma che ebbe l’insana (ma sacrosanta) idea di darmi questo disco da ascoltare ….. mi ricordo ancora le parole … “senti questo …. è più secco piu forte ….. è fortissimo … meglio dei Van Halen” …… già … Grazie Roma …..
ROCK ON
(The Lawyer, 29/03/2007)

domenica 25 marzo 2007

SEERS

Psych Out (1990, Cherry Red / Roadrunner rec.)
Caro DoktorP.,
ho appena compiuto una razionalizzazione che ti riguarda
(e infatti vado IMMEDIATAMENTE ad aprirmi una birra, prima di luzzattofegizzarmi):
ho capito che mi risvegli il desiderio di spolverare gli scaffali più vecchi, dove c'è tutta quella roba che ha costituito e costituisce il mio endoscheletro musicale più arrugginito dal tempo, e che aspettava paziente in casa di riposo una visita dei parenti - ma di quelli che portano di straforo Faciòn* e pornazzo al loro vecchio, un satiro tutto sarcasmo e veleno...
Ed ecco che infatti mentre cerco un qualche album di cui scriverti, la mia domenica sonnacchiosa ritrova un sorriso divertito e consapevole, ed echi di feste e vacanze irriferibili, al piovermi letteralmente addosso di un'opera prima (?) targata 1990: cinque ragazzotti inglesi (tutti?) che non ci stanno su tanto a pensare e ti sparano lì in modo forse un pò naif i loro pezzi belli chitarrosi e ruvido-melodici che ti si stampano in mente in un nanosecondo, roba per sgolarsi in gruppo che ti viene voglia di riempire una macchinata con 3 - 4 debosciati come te, aprire i primi due bottoni della camicia, inforcare occhiali da sole, autostrada e via, feste rock'n'roll ce n'è, Londra o Rimini, cassa di autarchica Moretti o di Camparini da 10, alla ricerca del wurstel perduto o di ragazze da fumetto (ma che cosa non è quell'inno d'apertura allegramente primordiale...
"Yeah, BABY I'M A WILD MAN...YEAH!! YEAH!! YEAH!!!"...stepitoso!!!), con la sicurezza di rimorchiare, sì...gli immancabili, succulenti e mastodontici mal di testa dell'alba che ormai ci si conosce per nome. Se per caso non si era capito trovo grandioso questo disco (anche se, mi secca ammetterlo, solo in versione CD c'è come bonus track "Lightning strikes" che mi piace da Dio...): deliziosamente ignorante e selvaggio, fa a pezzi qualunque tipo di cravatta in meno di un minuto.
*P.S.: per eventuali non addetti (ma chi ci crede?), Faciòn = Vecchia Romagna...
(LaRoma 24/3/2007)

lunedì 19 marzo 2007

DAVID SYLVIAN

Brilliant Trees (1984, Virgin)
E’ notte, ma per Milano c’è ancora traffico, la serata è stata pesante: cena, locale trendy,vino e poi moijtos, è ora di tornare.
Vado piano, le vie si susseguono tutte uguali, palazzi e semafori, incroci a cui non bisogna mai fermarsi, baracchini di panini e birre circondati da una fauna errante, viados e puttane, motociclisti spericolati e taxisti nevrastenici, nel lettore il cd di David Sylvian, colonna sonora ideale per questa notte.
Arrivo a casa ma non ho più sonno ed allora metto le cuffie e riascolto “Brilliant Trees”.
Mi lascio trasportare in un’atmosfera magica dalla voce calda e profonda di Sylvian, rimandi alla musica dei Japan, suo ex gruppo, con “Pulling punches” e “Red guitar”, ma anche atmosfere jazzate e musica d’autore per un cantante/artista (è anche valido pittore…) qui circondato da musicisti eccezionali del calibro di Ryuki Sakamoto, Holger Czukay, Jon Hassell.
E poi c’è “Nostalgia”, avvolgente, seducente come una bella donna, che ti fa sprofondare nel ricordo e ti riempie la mente di immagini del passato, un film al rallentatore di volti, situazioni, gioie e dolori, amori mai nati o troppo presto finiti, l’innocenza perduta e la consapevolezza del tempo che passa.
E’ l’alba, è ora di andare a dormire…..
(Lillo Lydon, 19/3/2007)

domenica 18 marzo 2007

MEREDITH MONK

Dolmen Music (1981, ECM)
A volte chiedo alla musica di stimolarmi con nuovi profumi come ad un liquore che assaggio per la prima volta.
Altre, per esempio quando lavoro, di mantenere in sospensione le idee come fa una pentola che bolle con gli aromi.
Altre ancora la uso sintonizzandola allo stato d’animo del momento.
In alcuni momenti mi pare di sentire la bellezza della vita in un modo così pieno che è sufficiente accettare solo di essere per abbraccirla tutta: niente escluso.
Al silenzio di questi momenti, impossibile in un centro abitato, sostituisco la musica di Meredith Monk.
La voce è al centro.
Senza parole e concetti è il suono.
Incanto di essere umani.
Stretta è la gabbia toracica per il sentire che si ricongiunge con il tutto.
Si manifesta in una lacrima di gioia.
(Argio, 18/3/2007)

mercoledì 14 marzo 2007

AND YOU WILL KNOW US BY THE TRAIL OF DEAD

Worlds Apart (2005)
Energia pura.
Non so dove andrai, giovane band, ma ascoltando questo disco, vien da pensare lontano...
Di sicuro, sembra giungere da lontano, dagli anni ottanta di Husker Du, Bad Religion, Sonic Youth; dagli anni settanta dei Led Zeppelin; dai sessanta dei Beatles...
Chitarre in primo piano e dai suoni importanti.
Turbinio di trascinanti riff che si ripetono, momenti al limite del prog che fanno restare a bocca aperta.
Compito a casa: ascoltare "Would You Smile Again" pensando a strutture musicali prog con suoni attuali;
spirali di melodie chitarristiche distorte che si inseguono giù per le scale, corsa in discesa, rollercoaster texano mozzafiato, vis giovanile post-punk.
Una band multiforme, così come la sua discografia, un preoccupante interrogativo sul chi è, a rincorrere lati oscuri di Quinlan piuttosto che ingegnosità ragionate del cittadino Kane!
E' un disco che non si stanca di suonare, ed io, non mi stanco di ascoltarlo.
E so di non essere l'unico.
(Nello Baffetti 14/3/2007)

martedì 13 marzo 2007

POGUES

If I Should Fall From Grace With God (1988, WEA Records)
Ricordi nella nebbia………….autunno 1988 o forse no?
a Santa Cristina……….festa di laurea o forse no?
Ricordi nella nebbia.
Poche certezze……Pasto D.J., svariate taniche di birra, ma soprattutto l’album “If Should Fall from Grace With God” della più grande folk-punk band esistente.
Il pezzo omonimo giunge irresistibile come una bomba e subito “dentro il cerchio del voodoo mi scaravento….ho il ballo di San Vito e non mi passa…..questo è il male che mi porto da 30 anni addosso….fermo non so stare in nessun posto” come declama il menestrello Vinicio.
A seguire Turkish song of the damned con armonica, banjo e mandolino che impazzano e la voce di Shane MacGowan che rantola insuperabile, la febbre sale con Bottle of smoke ormai il sudore imperla la mia fronte e cola copioso sulle mie guance, la T-shirt targata Danzig ne è completamente intrisa, ma le gambe non si fermano e il cuore batte a 1000.
Ricordi nella nebbia…..corpi femminili che si strusciano in preda a una danza tribale che evoca spiriti dalle tenebre…… o forse no?
Ricordi nella nebbia.
Ed ecco “Fiesta” il pezzo che inizia con un lento assolo di fiati per poi esplodere penetrando fino al midollo e scatenando la mia adrenalina mai sopita.
Ricordi nella nebbia………completamente svuotato trovo rifugio nell’ultima bottiglia rimasta o forse no?Ricordi nella nebbia.
Appunti, ricordi, annotazioni di MINEZ, (13/3/2007).

AFTERHOURS

Hai Paura Del Buio? (1997, Mescal)
Per noi esterofili nati, che abbiamo (spesso sbagliando) sempre guardato con sufficienza ai gruppi italiani, gli Afterhours sono stati uno schiaffo alla nostra supponenza.Questo album seguì “Germi”, primo disco cantato in italiano dopo gli inizi in inglese, che già conteneva alcune perle come “Ossigeno”, ”Dentro Marilyn”, “Germi” e la cover di “Mio fratello è figlio unico” di Rino Gaetano, e che in pratica anticipava quella che sarebbe stata la direzione definitiva intrapresa dal gruppo.Utilizzando la tecnica del Cut-up (tagliare articoli di vario genere e rimettere assieme frasi per esprimere poi concetti ed argomenti che nulla hanno a che fare con gli originali) Manuel Agnelli introdusse un nuovo modo di scrivere testi, che non erano i classici slogan delle posse, né il narrato dei cantautori, ma un qualcosa di diverso ed originale pur trattando di tematiche quali amore, droga, storie finite male e spesso esperienze personali.Musicalmente molto eclettici, capaci di passare dal pezzo melodico al rock duro, dalla ballata al classico pezzo punk, furono anche i primi ad introdurre il violino, spesso suonato distorto.Un disco completo che non ha niente da invidiare ai grandi dischi stranieri, siano essi americani inglesi od australiani, punto di partenza di un nuovo modo di fare musica in Italia.Ascoltare per credere le dolci ballate di “Pelle” o “Voglio una pelle splendida” o il punk-rock di “Male di miele” e “Lasciami leccare l’adrenalina”, la denuncia di “Sui giovani d’oggi ci scatarro su”, il lamento malato di “Punto G” o l’hard-rock di “Veleno”. Alla fine 19 canzoni, tra cui un paio di strumentali, che evitano il rischio della dispersione e della frammentarietà, di mettere troppa carne al fuoco, e che invece rivelano in tutta la sua grandezza uno dei più originali gruppi italiani.A 10 anni di distanza ancora un grande disco…
(Lillo Lydon, 12/3/2007)

martedì 6 marzo 2007

NEIL YOUNG

Tonight's the Night (1975, Reprise)
Il fondo del pozzo, la discesa all’inferno.
Registrato quasi interamente in presa diretta in un garage, fa parte della “doom trilogy” (con “Time fades away” e “On the beach”) che seguì il clamoroso successo di “Harvest”.
Sconvolto per la morte del chitarrista Danny Whitten e del roadie Bruce Berry per overdose, il divorzio e la scoperta della malattia del figlio, Young inizia la caduta libera nel pozzo in fondo al quale lo aspettano i suoi demoni. Disco pieno di disperazione e alcool, in cui spesso canta ubriaco, stonato, canzoni oscure e ruvide, testi di droga e di morte, ma che ci offrono cò che ogni artista ha di più prezioso: i propri dubbi, le proprie debolezze, le imperfezioni, la propria anima sconvolta.
A volte la grande musica non deve necessariamente essere bella musica, qui la voce è sgraziata, sembra quasi sul punto di spezzarsi, il suono nervoso, nessuna post-produzione o arrangiamento eppure pochi dischi al mondo riescono così tanto a commuovere, a toccare le corde più profonde perché pochi si sono spinti così al limite da aprire la propria anima e metterla su un disco.Un disco necessario, in bianco e nero come la copertina, l’autobiografia di un momento, lo specchiarsi nudo e vedersi circondato da spettri e fantasmi, ma sopratutto un disco sincero, straziante, commovente.
“Sono stato per la strada e sono tornato/fischiettando solitario lungo i binari della ferrovia/non è rimasto nulla di ciò che provavo/c’è qualcosa che è difficile trovare/una situazione che può danneggiare la mente”(Mellow my mind”).
“Bruce Berry era un lavoratore/caricava lui il furgone Econoline/aveva una scintilla negli occhi/ma la vita l’aveva in mano/Bè, a notte fonda quando la gente se n’era andata/raccoglieva la mia chitarra/e cantava una canzone con voce tremante/ma vera quanto era lungo il giorno/……..se non l’avete mai sentito cantare/credo che non lo sentirete tanto presto/perché, gente, lasciate che ve lo dica/mi è venuto un brivido alla schiena/quando ho alzato il telefono/e ho sentito che era morto di eroina/Questa è la notte….” (Tonight’s the night).
Un artista capace di dischi eccezionali (Zuma, Harvest, After the gold rush, Rust never sleeps ) e di tonfi clamorosi (Hawkes and doves, Re-actor, Trans, Landing on water), di trionfi e di cadute, di dischi imperfetti e spiazzanti, ma anche di stare sul palco da quarant’anni senza per questo sembrare patetico, di mettere sempre tutto sé stesso in ogni disco, bello o brutto che sia, e di regalarci capolavori senza tempo dal profondo dell’anima.
(Lillo Lydon, 5/3/2007)


giovedì 1 marzo 2007

TUXEDOMOON

Desire (1981, Pre Records)
L’inizio è un’atmosfera alla Blade Runner, ti immagini la Los Angeles futuristica, pioggia acida, strane macchine volanti, replicanti; poi si passa ad uno strano valzer, con la drum machine a dettare il ritmo e Wiston Tong che canta uno strano lamento mentre a turno sax e violino ti infilzano l’anima.
Strani rumori, sono chiuso in una stanza, cerco la porta ma non la trovo, un senso di claustrofobia mi avvolge, un martellante tintinnio, mi manca l’aria, voglio uscire ma sono attratto da questi suoni, quasi ipnotizzato. Una voce dall’altra stanza canta, sussurra, si lamenta.
Ed ecco parte un ritmo quasi dance, una danza spettrale, è forse la fine dell’incubo?
Inizia la seconda facciata con “Desire”, ideale colonna sonora di un film di David Lynch, Twin Peaks 15 anni prima, e poi “Again” preghiera, lamento, pianto, redenzione, tensione all’infinito che solo il sax riesce a lenire.
Tutto finito? No.
Inizia la danza macabra di “In the name of talent”, quasi Ian Curtis cantasse dall’aldilà ed allora è il momento di terminare con “Holiday for Playwood”, swing futuristico, Ginger Rogers e Fred Astaire che ballano in una New York del 2020.
Il sole sorge, è l’alba di un nuovo giorno…..
(Lillo Lydon, 29/2/2007)